LA CORONACIÓN DE POPEA

 

Personajes

POPEA

NERÓN

OTÓN

OCTAVIA

DRUSILA

SÉNECA


ARNALTA

NODRIZA

LUCANO

FORTUNA

VIRTUD

AMOR

VENUS

MERCURIO

PALAS ATENEA

LÍCTOR

Amante de Nerón

    Emperador de Roma

Noble Romano

   Esposa de Nerón

Noble, enamorada de Otón

Filósofo, preceptor de Nerón


Doncella de Popea

Nodriza de Octavia

Amigo de Nerón

Diosa

Diosa

Dios

Diosa

Dios

Diosa

Autoridad Romana

Soprano

Contralto

Contralto

Mezzosoprano

Tenor

Bajo


Contralto

Contralto

Tenor

Soprano

Soprano

Soprano

Soprano

Bajo

Soprano

Bajo

 

La acción se desarrolla en Roma, en el año 62.

Sinfonia

PROLOGO

(Fortuna, Virtù, Amore)

(Scena aerea con orizzonti bassi. Fortuna, Virtù,
Amore in aria sopra nuvole. La Fortuna, la Virtù,
ed Amor nell'aria contrastano di superiorità, e ne
riceve la preminenza, Amore)

FORTUNA
Deh, nasconditi, o Virtù,
già caduta in povertà,
non creduta deità,
nume ch'è senza tempio,
diva senza devoti, e senza altari,
dissipata,
disusata,
aborrita,
mal gradita,
ed in mio paragon sempre avvilita.
Già regina, or plebea, che per comprarti
gl'alimenti e le vesti
i privilegi e i titoli vendesti.
Ogni tuo professore,
se da me sta diviso
sembra un foco dipinto
che né scalda, né splende,
resta un calor sepolto
in penuria di luce;
Chi professa virtù non speri mai
di posseder ricchezza, o gloria alcuna,
se protetto non è dalla Fortuna.

VIRTÙ
Deh, sommergiti, mal nata,
rea chimera delle genti,
fatta dèa dagl'imprudenti.
Io son la vera scala,
per cui natura al sommo ben ascende.
Io son la tramontana,
che sola insegno agl'intelletti umani
l'arte del navigar verso l'Olimpo.
Può dirsi, senza adulazione alcuna,
il puro incorruttibil esser mio
termine convertibile con dio,
che ciò non si può dir di te, Fortuna.

AMORE
Che vi credete, o dèe,
divider fra di voi del mondo tutto
la signoria, e 'l governo,
escludendone Amore,
nume, ch'è d'ambe voi tanto maggiore?
Io le virtudi insegno,
io le fortune domo,
questa bambina età
vince d'antichità
il tempo, e ogn'altro dio:
gemelli siam l'eternitade ed io.
Riveritemi,
adoratemi,
e di vostro sovrano il nome datemi.

FORTUNA, VIRTÙ
Uman non è, non è celeste core,
che contender ardisca con Amore.

AMORE
Oggi in un sol certame,
l'un e l'altra di voi da me abbattuta,
dirà, che 'l mondo a' cenni miei si muta.

(Ad un cenno di Amore il cielo svanisce)



ATTO PRIMO


(La scena è la città di Roma)

Scena Prima

(Fuori del palazzo di Poppea, all’alba. Ottone, due
Soldati della guardia di Nerone, che dormono. Ottone,
amante di Poppea al schiarir dell'alba visita l'albergo
della sua amata, esagerando le sue passioni amorose, e
vedendo addormentate in strada le Guardie di Nerone,
che in casa di Poppea dimora in contenti, compiange le
sue miserie)

Ritornello

OTTONE
E pur io torno qui, qual linea al centro,
qual foco a sfera, e qual ruscello al mare,
e se ben luce alcuna non m'appare,
ah! so ben io, che sta 'l mio sol qui dentro.
Caro tetto amoroso,
albergo di mia vita, e del mio bene,
il passo e 'l core e ad inchinarti viene.
Apri un balcon Poppea
col bel viso in cui son le sorti mie,
previeni, anima mia, precorri il die.
Sorgi, e disgombra omai,
da questo ciel caligini e tenebre
con il beato aprir di tue palpebre.
Sogni, portate a volo,
fate sentire in dolce fantasia
questi sospir alla diletta mia.
Ma che veggio, infelice?
Non già fantasmi o pur notturne larve,
son questi i servi di Nerone; ahi dunque
agl'insensati venti
io diffondo i lamenti.
Necessito le pietre a deplorarmi,
adoro questi marmi,
amoreggio con lagrime un balcone,
e in grembo di Poppea dorme Nerone.
Ha condotti costoro,
per custodir sé stesso dalle frodi.
O salvezza de' prencipi infelice:
dormon profondamente i suoi custodi.
Ah, perfida Poppea,
son queste le promesse e i giuramenti
ch’accesero il cor mio?
Questa è la fede, o dio!
Io son quell'Ottone,
che ti seguì,
che ti bramò,
che ti servì,
che t'adorò;
che per piegarti o intenerirti il core
di lagrime imperlò preghi devoti,
gli spirti a te sacrificando in voti.
M'assicurasti alfine
ch'abbracciate averei nel tuo bel seno
le mie beatitudini amorose;
io di credula speme il seme sparsi,
ma l'aria e 'l cielo a' danni miei rivolto...

Scena Seconda

(Ottone, i due Soldati che si risvegliano. Soldati di
Nerone si svegliano, e da' patimenti sofferti in quella
notte malediscono gl'amori di Poppea, e di Nerone,
e mormorano della corte)

PRIMO SOLDATO
Chi parla?

OTTONE
Tempestò di ruine...

PRIMO SOLDATO
Chi parla?

OTTONE
...il mio raccolto.

PRIMO SOLDATO
Chi va lì?

SECONDO SOLDATO
Camerata, camerata!...

PRIMO SOLDATO
Ohimè, ancor non è dì!

SECONDO SOLDATO
Camerata, che fai?
Par che parli sognando.

PRIMO SOLDATO
Sorgono pur dell'alba i primi rai.

SECONDO SOLDATO
Su, risvegliati tosto...

PRIMO SOLDATO
Non ho dormito in tutta notte mai.

SECONDO SOLDATO
Su, risvegliati tosto,
guardiamo il nostro posto.

PRIMO SOLDATO
Sia maledetto Amor, Poppea, Nerone
e Roma, e la milizia,
soddisfar io non posso alla pigrizia
un'ora, un giorno solo.

SECONDO SOLDATO
La nostra imperatrice
stilla sé stessa in pianti,
e Neron per Poppea la vilipende;
l'Armenia si ribella,
ed egli non ci pensa.
La Pannonia dà all'armi, ed ei se ne ride,
così, per quant'io veggio,
l'impero se ne va di male in peggio.

PRIMO SOLDATO
Di' pur che il prence nostro ruba a tutti
per donar ad alcuni;
l'innocenza va afflitta
e i scellerati stan sempre a man dritta.

SECONDO SOLDATO
Sol del pedante Seneca si fida.

PRIMO SOLDATO
Di quel vecchion rapace?

SECONDO SOLDATO
Di quel volpon sagace!

PRIMO SOLDATO
Di quel reo cortigiano
che fonda il suo guadagno
sul tradire il compagno!

SECONDO SOLDATO
Di quell'empio architetto
che si fa casa sul sepolcro altrui.

PRIMO SOLDATO
Non ridire ad alcun quel che diciamo.
Nel fidarti va scaltro;
se gl'occhi non si fidan l'un dell'altro
e però nel guardar van sempre insieme.

AMBI
Impariamo dagl'occhi,
a non trattar da sciocchi.

PRIMO SOLDATO
Ma, già s'imbianca l'alba, e vien il dì.

AMBI
Taciam, Neron è qui.

Scena Terza

(Poppea, e Nerone escono al far del giorno
amorosamente abbracciati, prendendo
commiato l'un dall'altro con tenerezze affettuose)

POPPEA
Signor, deh, non partire!
Sostien, che queste braccia
ti circondino il collo,
come le tue bellezze
circondano il cor mio.

NERONE
Poppea, lascia ch'io parta.

POPPEA
Non partir, signor, deh non partire.
Appena spunta l'alba, e tu che sei
l'incarnato mio sole,
la mia palpabil luce,
e l'amoroso dì della mia vita,
vuoi sì repente far da me partita?
Deh non dir di partire
che di voce sì amara a un solo accento,
ahi perir, ahi spirar quest'alma io sento.

NERONE
La nobiltà de' nascimenti tuoi
non permette che Roma
sappia che siamo uniti,
in sin ch'Ottavia...

POPPEA
In sin che...

NERONE
In sin ch'Ottavia non rimane esclusa...

POPPEA
Non rimane...

NERONE
In sin ch'Ottavia non rimane esclusa
col ripudio da me.

POPPEA
Vanne ben mio...

Ritornello

NERONE
In un sospir che vien
dal profondo del sen,
includo un bacio, o cara, ed un addio:
si rivedrem ben tosto, idolo mio.

Ritornello

POPPEA
Signor, sempre mi vedi,
anzi mai non mi vedi.
Perché s'è ver, che nel tuo cor io sia,
entro al tuo sen celata,
non posso da' tuoi lumi esser mirata.

NERONE
Adorati miei rai,
deh restatevi omai!
Rimanti, o mia Poppea,
cor, vezzo, e luce mia.

POPPEA
Deh non dir di partire,
che di voce sì amara a un solo accento
ahi perir, ahi mancar quest'alma io sento.

NERONE
Non temer, tu stai meco a tutte l'ore,
splendor negl'occhi, e deità nel core.

POPPEA
Tornerai?

NERONE
Se ben io vo
pur teco io sto.

POPPEA
Tornerai?

NERONE
Il cor dalle tue stelle
mai non si disvelle.

POPPEA
Tornerai?

NERONE
Io non posso da te viver disgiunto
se non si smembra la unità del punto.

POPPEA
Tornerai?

NERONE
Tornerò.

POPPEA
Quando?

NERONE
Ben tosto.

POPPEA
Ben tosto, me 'l prometti?

NERONE
Te 'l giuro.

POPPEA
E me l'osserverai?

NERONE
E s'a te non verrò, tu a me verrai.

POPPEA
A dio...

NERONE
A dio...

POPPEA
Neron, Neron, a dio!

NERONE
Poppea, Poppea, a dio!

POPPEA
A Dio, Nerone, a dio!

NERONE
A Dio, Poppea, ben mio!

Scena Quarta

(Poppea con Arnalta vecchia sua consigliera
discorre della speranza sua alle grandezze;
Arnalta la documenta, e ammaestra a non
fidarsi tanto de' grandi, né di confidar tanto
nella Fortuna)

Ritornello

POPPEA
 Speranza, tu mi vai
il cor accarezzando.
Speranza, tu mi vai
il genio lusingando,
e mi circondi intanto
di regio sì, ma immaginario manto.
No, non temo, no, di noia alcuna,
per me guerreggia Amor, e la Fortuna.

ARNALTA
Ahi figlia, voglia il cielo,
che questi abbracciamenti
non sian un giorno i precipizi tuoi.

POPPEA
No, non temo, no, di noia alcuna.

ARNALTA
L'imperatrice Ottavia ha penetrati
di Neron gli amori,
ond'io pavento e temo
ch'ogni giorno, ogni punto
sia di tua vita il giorno, il punto estremo.

POPPEA
Per me guerreggia Amor, e la Fortuna.

ARNALTA
La pratica coi regi è perigliosa,
l'amor e l'odio non han forza in essi,
sono gli affetti lor puri interessi.
Se Neron t'ama, è mera cortesia,
s'ei t'abbandona, non te n' puoi dolere.
Per minor mal ti converrà tacere.

POPPEA
No, non temo, no, di noia alcuna.

ARNALTA
Il grande spira onor con la presenza,
lascia, mentre la casa empie di vento,
riputazione e fumo in pagamento.
Perdi l'onor con dir: «Neron mi gode».
Son inutili i vizi ambiziosi,
mi piaccion più i peccati fruttuosi.
Con lui tu non puoi mai trattar del pari,
e se le nozze hai per oggetto e fine,
mendicando tu vai le tue ruine.

POPPEA
No, non temo, no, di noia alcuna.

ARNALTA
Mira, mira Poppea,
dove il prato è più ameno e dilettoso,
stassi il serpente ascoso.
Dei casi le vicende son funeste,
la calma è profezia delle tempeste.

POPPEA
No, non temo, no, di noia alcuna,
per me guerreggia Amor, e la Fortuna.

ARNALTA
Ben sei pazza, se credi
che ti possano far contenta e salva
un garzon cieco ed una donna calva.

Scena Quinta

(Gli appartamenti imperiali Ottavia imperatrice
esagera gl'affanni suoi con la nutrice, detestando
i mancamenti di Nerone suo consorte. La Nutrice
scherza seco sopra novelli amori per traviarla da'
cupi pensieri; Ottavia resistendo costantemente
persevera nell'afflizioni)

OTTAVIA
Disprezzata regina,
del monarca romano afflitta moglie,
che fo, ove son, che penso?
O delle donne miserabil sesso:
se la natura e 'l cielo
libere ci produce,
il matrimonio c'incatena serve.
Se concepiamo l'uomo,
o delle donne miserabil sesso,
al nostr'empio tiran formiam le membra,
allattiamo il carnefice crudele
che ci scarna e ci svena,
e siam forzate per indegna sorte
a noi medesme partorir la morte.
Nerone, empio Nerone,
marito, o dio, marito
bestemmiato pur sempre,
e maledetto dai cordogli miei,
dove, ohimè, dove sei?
In braccio di Poppea,
tu dimori felice e godi, e intanto
il frequente cader de' pianti miei
pur va quasi formando
un diluvio di specchi, in cui tu miri,
dentro alle tue delizie, i miei martiri.
Destin, se stai lassù,
Giove ascoltami tu,
se per punir Nerone
fulmini tu non hai,
d'impotenza t'accuso,
d'ingiustizia t'incolpo;
ahi, trapasso tropp'oltre, e me ne pento,
sopprimo e seppellisco
in taciturne angosce il mio tormento.

NUTRICE
Ottavia, Ottavia...

OTTAVIA
O ciel, deh, l'ira tua s'estingua,
non provi i tuoi rigori il fallo mio...

NUTRICE
Ottavia, o tu dell'universe genti
unica imperatrice...

OTTAVIA
Errò la superficie, il fondo è pio,
innocente fu il cor, peccò la lingua.

NUTRICE
...odi, odi.
Di tua fida nutrice odi gli accenti.
Se Neron perso ha l'ingegno,
di Poppea ne' godimenti,
scegli alcun, che di te degno,
d'abbracciarti si contenti.
Se l'ingiuria a Neron tanto diletta,
abbi piacer tu ancor nel far vendetta.
E se pur aspro rimorso
dell'onor t'arreca noia,
fa' riflesso al mio discorso,
ch'ogni duol ti sarà gioia.

OTTAVIA
Così sozzi argomenti
non intesi più mai da te, Nutrice!

NUTRICE
Fa' riflesso al mio discorso,
ch'ogni duol ti sarà gioia.
L'infamia sta gl'affronti in sopportarsi,
e consiste l'onor nel vendicarsi.
Han poi questo vantaggio
delle regine gli amorosi errori,
se li sa l'idiota, non li crede,
se l'astuto li penetra, li tace,
e 'l peccato taciuto e non creduto
sta segreto e sicuro in ogni parte,
com'un che parli in mezzo un sordo, e un muto.

OTTAVIA
No, mia cara Nutrice:
la donna assassinata dal marito
per adultere brame,
resta oltraggiata sì, ma non infame!
Per il contrario resta
lo sposo inonorato,
se il letto marital li vien macchiato.

NUTRICE
Figlia e signora mia, tu non intendi
della vendetta il principale arcano.
L'offesa sopra il volto
d'una sola guanciata
si vendica col ferro e con la morte.
Chi ti punge nel senso,
pungilo nell'onore,
se bene a dirti il vero,
né pur così sarai ben vendicata;
nel senso vivo te punge Nerone,
e in lui sol pungerai l'opinione.
Fa' riflesso al mio discorso,
ch'ogni duol ti sarà gioia.

OTTAVIA
Se non ci fosse né l'onor, né dio,
sarei nume a me stessa, e i falli miei
con la mia stessa man castigherei,
e però lunge dagli errori intanto
divido il cor tra l'innocenza e 'l pianto.

Scena Sesta

(Seneca consola Ottavia ad esser constante. Valletto
paggio d'Ottavia per trattenimento dell'imperatrice
burla Seneca al quale Ottavia si raccomanda, e va a
porger preghiere al tempio)

SENECA
Ecco la sconsolata
Donna, assunta all'impero
per patir il servaggio: o gloriosa
del mondo imperatrice,
sovra i titoli eccelsi
degl'insigni avi tuoi cospicua e grande,
la vanità del pianto
degl'occhi imperiali è ufficio indegno.
Ringrazia la Fortuna,
che con i colpi suoi
ti cresce gl'ornamenti.
La cote non percossa
non può mandar faville;
tu dal destin colpita
produci a te medesma alti splendori
di vigor, di fortezza,
glorie maggiori assai, che la bellezza.
La vaghezza del volto, i lineamenti,
ch'in apparenza illustre
risplendon coloriti, e delicati,
da pochi ladri dì ci son rubati.
Ma la Virtù costante
usa a bravar le stelle, il fato, e 'l caso,
giammai non vede occaso.

OTTAVIA
Tu mi vai promettendo
balsamo dal veleno,
e glorie da' tormenti.
Scusami, questi son, Seneca mio,
vanità speciose,
studiati artifici,
inutili rimedi agl'infelici.

VALLETTO
Madama, con tua pace,
io vo' sfogar la stizza, che mi move
il filosofo astuto, il gabba Giove.
M'accende pure a sdegno,
questo miniator di bei concetti.
Non posso star al segno,
mentre egli incanta altrui con aurei detti.
Queste del suo cervel mere invenzioni,
le vende per misteri e son canzoni!
Madama, s'ei... sternuta o s'ei sbadiglia...
presume d'insegnar cose morali,
e tanto l'assottiglia,
che moverebbe il riso a' miei stivali.
Scaltra filosofia! dov'ella regna,
sempre al contrario fa di quel ch'insegna.
Fonda sempre il pedante
su l'ignoranza d'altri il suo guadagno,
e accorto argomentante
non ha Giove per dio, ma per compagno,
e le regole sue di modo intrica,
ch'al fin neanch'egli sa ciò, ch'ei si dica.

OTTAVIA
Neron tenta il ripudio
della persona mia
per isposar Poppea. Si divertisca,
se divertir si può sì indegno esempio.
Tu per me prega il popol e 'l senato,
ch'io mi riduco, a porger voti al tempio.

VALLETTO
Se tu non dài soccorso
alla nostra regina, in fede mia,
che vo' accenderti il foco,
e nella barba, e nella libreria...
in fede mia.

Scena Settima

(Seneca fa considerazione sopra le grandezze
transitorie del mondo

SENECA
Le porpore regali e imperatrici,
d'acute spine e triboli conteste,
sotto forma di veste
sono il martirio a' prencipi infelici;
le corone eminenti
servono solo a indiademar tormenti.
Delle regie grandezze
si veggono le pompe e gli splendori,
ma stan sempre invisibili i dolori.

Scena Ottava

(Pallade in aria predice la morte a Seneca,
promettendoli che se doverà certo morire glielo
farà di novo intender per bocca di Mercurio, e
ciò per esser come uomo virtuoso suo caro e
diletto; venendo ringraziata sommamente da Seneca)

PALLADE
Seneca, io veggo in cielo infausti rai
che minacciano te d'alte ruine;
s'oggi verrà della tua vita il fine,
pria da Mercurio avvisi certi avrai.

SENECA
Venga la morte pur; costante e forte,
vincerò gli accidenti e le paure;
dopo il girar delle giornate oscure
è di giorno infinito alba la morte.

Scena Nona

(Nerone con Seneca discorre, dicendo voler adempire
alle sue voglie. Seneca moralmente, e politicamente gli
risponde dissuadendolo, Nerone si sdegna, e lo scaccia
dalla sua presenza)

NERONE
Son risoluto insomma
o Seneca, o maestro,
di rimovere Ottavia
dal posto di consorte,
e di sposar Poppea.

SENECA
Signor, nel fondo della maggior dolcezza
spesso giace nascosto il pentimento.
Consiglier scellerato è 'l sentimento,
ch'odia le leggi, e la ragion disprezza.

NERONE
La legge è per chi serve, e se vogl'io,
posso abolir l'antica e indur le nove;
è partito l'impero, è 'l ciel di Giove,
ma del mondo terren lo scettro è mio.

SENECA
Sregolato voler non è volere,
ma, dirò con tua pace, egli è furore.

NERONE
La ragione è misura rigorosa
per chi ubbidisce e non per chi comanda.

SENECA
Anzi l'irragionevole comando
distrugge l'ubbidienza.

NERONE
Lascia i discorsi, io voglio a modo mio.

SENECA
Non irritar il popolo e 'l senato.

NERONE
Del senato e del popolo non curo.

SENECA
Cura almeno te stesso, e la tua fama.

NERONE
Trarrò la lingua a chi vorrà biasmarmi.

SENECA
Più muti che farai, più parleranno.

NERONE
Ottavia è infrigidita ed infeconda.

SENECA
Chi ragione non ha, cerca pretesti.

NERONE
A chi può ciò che vuol, ragion non manca.

SENECA
Manca la sicurezza all'opre ingiuste.

NERONE
Sarà sempre più giusto il più potente.

SENECA
Ma chi non sa regnar sempre può meno.

NERONE
La forza è legge in pace...

SENECA
La forza accende gli odi...

NERONE
...e spada in guerra...

SENECA
...e turba il sangue...

NERONE
...e bisogno non ha della ragione.

SENECA
La ragione regge gl'uomini e gli dèi.

NERONE
Tu mi forzi allo sdegno; al tuo dispetto,
e del popol in onta e del senato
e d'Ottavia, e del cielo, e dell'abisso,
siansi giuste od ingiuste le mie voglie,
oggi, oggi Poppea sarà mia moglie!

SENECA
Siano innocenti i regi
o s'aggravino sol di colpe illustri;
s'innocenza si perde,
perdasi sol per guadagnar i regni,
che il peccato commesso
per aggrandir l'impero
si assolve da sé stesso;
ma ch'una femminella abbia possanza
di condurti agli errori,
non è colpa di rege o semideo:
è un misfatto plebeo.

NERONE
Levamiti dinnanzi,
maestro impertinente,
filosofo insolente!

SENECA
Il partito peggior sempre sovrasta
quando la forza alla ragion contrasta.

Scena Decima

(Poppea con Nerone discorrono de' contenti passati,
restando Nerone preda delle bellezze di Poppea,
promettendoli volerla crear imperatrice, e da Poppea
venendo messo in disgrazia di lui Seneca, Nerone
adirato gli decreta la morte, Poppea fa voto ad Amore
per l'esaltazione delle sue grandezze, e da Ottone, che
se ne sta in disparte, viene inteso e osservato il tutto)

Sinfonia

POPPEA
Come dolci, signor, come soavi
riuscirono a te la notte andata
di questa bocca i baci?

NERONE
Più cari i più mordaci.

POPPEA
Di questo seno i pomi?

NERONE
Mertan le mamme tue più dolci nomi.

POPPEA
Di queste braccia mie gli stretti amplessi?

NERONE
Idolo mio, deh in braccio ancor t'avessi!
Poppea respiro appena;
miro le labbra tue,
e mirando recupero con gl'occhi
quello spirto infiammato,
che nel baciarti, o cara, in te diffusi.
Non è, non è più in cielo il mio destino,
ma sta dei labbri tuoi nel bel rubino.

POPPEA
Signor, le tue parole son sì dolci,
ch'io nell'anima mia
le ridico a me stessa,
e l'interno ridirle
necessita al deliquio il cor amante.
Come parole le odo,
come baci io le godo;
son de' tuoi cari detti
i sensi sì soavi, e sì vivaci,
che, non contenti di blandir l'udito,
mi passano a stampar sul cor i baci.

NERONE
Quell'eccelso diadema ond'io sovrasto
degl'uomini, e de' regni alle fortune,
teco divider voglio,
e allor sarò felice
quando il titol avrai d'imperatrice;
ma che dico, o Poppea!
Troppo picciola è Roma ai merti tuoi,
troppo angusta è l'Italia alle tue lodi,
e al tuo bel viso è basso paragone
l'esser detta consorte di Nerone;
e han questo svantaggio i tuoi begl'occhi,
che, trascendendo i naturali esempi,
e per modestia non toccando i cieli,
non ricevon tributo d'altro onore,
che di solo silenzio, e di stupore.

POPPEA
A speranze sublimi il cor innalzo
perché tu lo comandi,
e la modestia mia riceve forza;
ma troppo s'attraversa ed impedisce
delle regie promesse il fin sovrano.
Seneca, il tuo maestro,
quello stoico sagace,
quel filosofo astuto,
che sempre tenta persuader altrui
che il tuo scettro dipende sol da lui...

NERONE
Che? che?

POPPEA
Che il tuo scettro dipende sol da lui...

NERONE
Quel decrepito pazzo...

POPPEA
Quel, quel!

NERONE
...ha tanto ardire?

POPPEA
Ha tanto ardire.

NERONE
(Gli soldati)
Olà, vada un di voi
a Seneca volando, e imponga a lui,
che in questo giorno ei mora.

(Fra sé)

Vo' che da me l'arbitrio mio dipenda,
non da concetti e da sofismi altrui;
rinnegherei per poco
le potenze dell'alma, s'io credessi
che servilmente indegne
si movessero mai col moto d'altre.

(A Poppea)

Poppea, sta di buon core,
oggi vedrai ciò che sa far Amore.

(Nerone esce)

POPPEA
Se mi conduci, Amor,
a regia maestà,
al tuo tempio il mio cor,
voto si apprenderà.
Spirami tutto in sen
fonte d'ogni mio ben,
al trono innalza me,
Amor, ogni mia speme io pongo in te.
Le meraviglie, Amor,
son opre di tua man,
trascende gli stupor
il tuo poter sovran.
Consola i miei sospir,
adempi i miei desir,
al trono innalza me,
Amor, ogni mia speme io pongo in te.

Scena Undicesima

(Ottone con Poppea palesa le sue morte speranze
con lei, e da passione amorosa la rinfaccia, Poppea
si sdegna, e sprezzandolo parte dicendo esser soggetta
a Nerone)

Ritornello

OTTONE
Ad altri tocca in sorte
bere il licor, e a me guardar il vaso,
aperte stan le porte
a Neron, ed Otton fuori è rimaso;
sied'egli a mensa a satollar sue brame,
in amaro digiun mor'io di fame.

POPPEA
Chi nasce sfortunato
di sé stesso si dolga, e non d'altrui;
del tuo penoso stato
aspra cagion, Otton, non son, né fui;
il destin getta i dadi, e i punti attende:
l'evento, o buono o reo, da lui dipende.

OTTONE
Sperai che quel macigno,
bella Poppea, che ti circonda il core,
fosse d'amor benigno
intenerito a pro del mio dolore,
or del tuo bianco sen la selce dura
di mie morte speranze è sepoltura.

POPPEA
Deh, non più rinfacciarmi,
porta, deh porta il martellino in pace,
cessa di più tentarmi,
al cenno imperial Poppea soggiace;
ammorza il foco omai, tempra gli sdegni;
io lascio te per arrivar ai regni.

OTTONE
E così, e così l'ambizione
sovra ogni vizio tien la monarchia.

POPPEA
Così, così la mia ragione
incolpa i tuoi capricci di pazzia.

OTTONE
È questo del mio amor il guiderdone?

POPPEA
Modestia, olà...

OTTONE
È questo del mio amor il guiderdone?

POPPEA
Olà, non più,...

OTTONE
È questo del mio amor il guiderdone?

POPPEA
Non più, non più, son di Nerone.

OTTONE
Ahi, chi ripon sua fede in un bel volto,
fabbrica in aria, e sopra il vacuo fonda,
tenta palpare il vento,
ed immobili afferma il fumo, e l'onda.

ARNALTA
Infelice garzone!
Mi move a compassion il miserello;
Poppea non ha cervello
a non gl'aver pietà,
quand'ero in altra età
non volevo gl'amanti
in lacrime distrutti,
per compassion gli contentavo tutti.

Scena Dodicesima

(Ottone amante disperato imperversa con
l'animo contro Poppea)

OTTONE
Otton, torna in te stesso,
il più imperfetto sesso
non ha per sua natura
altro d'uman in sé, che la figura.
Otton, torna in te stesso,
costei pensa al comando, e se ci arriva
la mia vita è perduta...
Otton, torna in te stesso,
ella temendo che risappia Nerone
i miei passati amori,
ordirà insidie all'innocenza mia,
indurrà co' la forza un che m'accusi
di lesa maestà di fellonìa,
la calunnia, da' grandi favorita,
distrugge agl'innocenti onor, e vita.
Vo' prevenir costei
col ferro o col veleno,
non mi vo' più nutrir il serpe in seno.
A questo, a questo fine
dunque arrivar dovea
l'amor tuo, perfidissima Poppea!

Scena Tredicesima

(Ottone di già amante di Drusilla dama di corte,
vedendosi sprezzato da Poppea rinnova seco gl'amori
promettendoli lealtà. Drusilla resta consolata del
ricuperato suo affetto, e fornisse l'atto primo)

DRUSILLA
Pur sempre di Poppea,
o con la lingua, o col pensier discorri.

OTTONE
Discacciato dal cor viene alla lingua,
e dalla lingua è consegnato ai venti
il nome di colei
ch'infedele tradì gl'affetti miei.

DRUSILLA
Il tribunal d'Amor
tal or giustizia fa:
di me non hai pietà,
altri si ride, Otton, del tuo dolor.

OTTONE
A te di quanto son,
bellissima donzella
or fo libero don;
ad altri mi ritolgo,
e solo tuo sarò, Drusilla mia.
Perdona, o dio, perdona
il passato scortese mio costume.

DRUSILLA
Già l'oblio seppellì
gl'andati amori?
È ver, Otton, è ver,
ch'a questo fido cor il tuo s'unì?

OTTONE
È ver, Drusilla, Drusilla, è ver, sì, sì.

DRUSILLA
Temo che tu mi dica la bugia.

OTTONE
No, no, Drusilla, Drusilla, no.

DRUSILLA
Otton, Otton, non so, non so.

OTTONE
Teco non può mentir la fede mia.

DRUSILLA
M'ami?

OTTONE
Ti bramo.

DRUSILLA
E come in un momento?

OTTONE
Amor è foco, e subito s'accende.

DRUSILLA
Sì sùbite dolcezze
gode lieto il mio cor, ma non l'intende.
M'ami?

OTTONE
Ti bramo.
Ti dican l'amor mio le tue bellezze.
Per te nel cor ho nova forma impressa,
i miracoli tuoi credi a te stessa.

DRUSILLA
Lieta m'en vado: Otton, resta felice;
m'indirizzo a riverir l'imperatrice.

OTTONE
Le tempeste del cor tutte tranquilla;
d'altri Otton non sarà che di Drusilla;
e pur al mio dispetto, iniquo Amore,
Drusilla ho in bocca e ho Poppea nel core.



ATTO SECONDO


Scena Prima

(Il giardino della villa di Seneca, fuori Roma. Mercurio
in terra mandato da Pallade annunzia a Seneca dover
egli certo morire in quel giorno, il quale senza punto
smarrirsi degl'orrori della morte, rende grazie al cielo,
e Mercurio dopo fatta l'ambasciata se ne vola al cielo)

SENECA
Solitudine amata,
eremo della mente,
romitaggio a' pensieri,
delizia all'intelletto
che discorre, e contempla
l'immagini celesti
sotto le forme ignobili e terrene,
a te l'anima mia lieta se n' viene,
e lunge dalla corte,
ch'insolente e superba
fa della mia pazienza anatomia
qui tra le frondi, e l'erbe,
m'assido in grembo della pace mia.

MERCURIO
Vero amico del cielo
appunto in questa solitaria chiostra
visitarti io volevo.

SENECA
E quando, e quando mai
le visite divine io meritai?

MERCURIO
La sovrana virtù di cui sei pieno
deifica i mortali,
e perciò son da te ben meritate
le celesti ambasciate.
Pallade a te mi manda,
e t'annunzia vicina l'ultim'ora
di questa frale vita,
e 'l passaggio all'eterna ed infinita.

SENECA
Oh me felice, adunque
s'ho vissuto sinora
degl'uomini la vita,
vivrò dopo la morte
la vita degli dèi.
Nume cortese, oggi il morir m'accenni?
Or confermo i miei scritti,
autentico i miei studi;
l'uscir di vita è una beata sorte,
se da bocca divina esce la morte.

MERCURIO
Lieto dunque t'accingi
al celeste viaggio,
al felice passaggio,
t'insegnerò la strada,
che ne conduce allo stellato polo;
Seneca or colà su io drizzo il mio volo.

Scena Seconda

(Seneca riceve da Liberto, Capitano della guardia
di Nerone, l'annunzio di morte d'ordine di Nerone;
Seneca costante si prepara all'uscir di vita

LIBERTO
(Fra sè)
Il comando tiranno
esclude ogni ragione,
e tratta solo o violenza, o morte.
Io devo riferirlo, e nondimeno
relatore innocente
mi par d'esser partecipe del male,
ch'a riferire io vado.

(A Seneca)

Seneca, assai m'incresce di trovarti,
mentre pur ti ricerco.
Deh non mi riguardar con occhio torvo
se a te sarò d'infausto annunzio il corvo.

SENECA
Amico è già gran tempo,
ch'io porto il seno armato
contro i colpi del fato.
La notizia del secolo in cui vivo,
forestiera non giunge alla mia mente;
se m'arrechi la morte,
non mi chieder perdono:
rido, mentre mi porti un sì bel dono.

LIBERTO
Nerone...

SENECA
Non più, non più...

LIBERTO
A te mi manda.

SENECA
Non più, t'ho inteso, e ubbidisco or ora.

LIBERTO
E come intendi, prima ch'io m'esprima?

SENECA
La forma del tuo dire, e la persona
che a me ti manda, son due contrassegni
minacciosi e crudeli
del mio fatal destino;
già, già son indovino.
Nerone a me t'invia
a imponermi la morte.

LIBERTO
Signor indovinasti;
mori, e mori felice,
che come vanno i giorni
all'impronto del sole
a marcarsi di luce,
così alle tue scritture
verran per prender luce i scritti altrui.
Mori, e mori felice!

SENECA
Vanne, vattene omai,
e se parli a Nerone avanti sera,
ch'io son morto, e sepolto, gli dirai.

Scena Terza

(Seneca consola i suoi Famigliari, quali lo dissuadono
a morire, e ordina a quelli di prepararli il bagno per
ricever la morte)

SENECA
Amici è giunta l'ora
di praticare in fatti
quella virtù, che tanto celebrai.
Breve angoscia è la morte;
un sospir peregrino esce dal core,
ov'è stato molt'anni,
quasi in ospizio, come forestiero,
e se ne vola all'Olimpo,
della felicità soggiorno vero.

FAMIGLIARI
Non morir, Seneca, no.
Io per me morir non vo'.

Ritornello

Questa vita è dolce troppo,
questo ciel troppo è sereno,
ogni amar, ogni veleno
finalmente è lieve intoppo.
Se mi corco al sonno lieve,
mi risveglio in sul mattino,
ma un avel di marmo fino,
mai no dà quel che riceve.
Non morir, Seneca, no.
Io per me morir non vo'.

SENECA
Sopprimete i singulti,
rimandate quei pianti
dai canali degl'occhi
alle fonti dell'anime, o i miei cari.
Vada quell'acqua omai
a lavarmi dai cori
dell'incostanza vil le macchie indegne.
Altr'esequie ricerca,
che un gemito dolente
Seneca moriente.
Itene tutti, a prepararmi il bagno,
che se la vita corre
come il rivo fluente,
in un tepido rivo
questo sangue innocente io vo' che vada
a imporporarmi del morir la strada.

Scena Quarta

(Valletto, paggio, e Damigella dell'imperatrice
scherzano amorosamente insieme)

Ritornello

VALLETTO
Sento un certo non so che,
che mi pizzica, e diletta,
dimmi tu che cosa egli è,
damigella amorosetta.
Ti farei, ti direi,
ma non so quel ch'io vorrei.
Se sto teco il cor mi batte,
se tu parti, io sto melenso,
al tuo sen di vivo latte,
sempre aspiro e sempre penso.
Ti farei, ti direi,
ma non so quel ch'io vorrei.

DAMIGELLA
Astutello, garzoncello,
bamboleggia amor in te.
Se divieni amante, affé,
perderai tosto il cervello.
Tresca Amor per sollazzo coi bambini,
ma siete Amor, e tu, due malandrini.

VALLETTO
Dunque amor così comincia?
È una cosa molto dolce?
Io darei per godere il tuo diletto
i cireggi, le pera, ed il confetto.
Ma se amaro divenisse
questo miel, che sì mi piace,
lo addolciresti tu?
Dimmelo vita mia, dimmelo tu?

DAMIGELLA
L'addolcirei, sì, sì.

VALLETTO
Ma come poi faresti?

DAMIGELLA
Che dunque non lo sai?

VALLETTO
No 'l so, cara, no 'l so.
Dimmi, come si fa;
fa' ch'io lo sappia espresso,
perché se la superbia si ponesse
sul grave del sussiego
io sappia raddolcirmi da me stesso.
Mi par che per adesso,
se mi dirai, che m'ami,
io mi contenterò,
dimmelo dunque, o cara,
e se vivo mi vuoi, non dir di no.

DAMIGELLA
T'amo, caro Valletto,
e nel mezzo del cor sempre t'avrò.

VALLETTO
Non vorrei, speme mia, starti nel core,
vorrei starti più in su
non so, se sia mia voglia o saggia, o sciocca;
io vorrei, che 'l mio cor facesse nido
nelle fossette belle, e delicate,
che stan poco discoste alla tua bocca.

DAMIGELLA
Se ti mordessi poi?
Ti lagneresti in pianti tutto un dì.

VALLETTO
Mordimi quanto sai,
mai non mi lagnerò,
morditure sì dolci
vorrei sempre goderle,
purché baciato io sia da' tuoi rubini
mi mordan pur le perle.
Mordimi quanto sai: mordimi sì.

Scena Quinta

(Nerone intesa la morte di Seneca, canta amorosamente
con Lucano poeta suo famigliare deliriando nell'amor
di Poppea)

NERONE
Or che Seneca è morto,
cantiam, cantiam Lucano,
amorose canzoni
in lode d'un bel viso,
che di sua mano Amor nel cor, m'ha inciso.

LUCANO
Cantiam, signore, cantiamo...

NERONE, LUCANO
Di quel viso ridente,
che spira glorie, ed influisce amori;
cantiam di quel viso beato
in cui l'idea miglior sé stessa pose,
e seppe su le nevi
con nova meraviglia,
animar, incarnar la granatiglia.
Cantiam, di quella bocca
a cui l'India e l'Arabia
le perle consacrò, donò gli odori.
Bocca, bocca...

LUCANO
Bocca, che se ragiona, o ride,
con invisibil arme punge, e all'alma
dona felicità mentre l'uccide.
Bocca, che se mi porge
lasciveggiando il tenero rubino
m'inebria il cor di nettare divino.

NERONE
Ahi destin! Ahi destino!

LUCANO
Tu vai, signor, tu vai
nell'estasi d'amor deliciando,
e ti piovon dagl'occhi
stille di tenerezza,
lacrime di dolcezza.

NERONE
Idolo mio,
celebrarti io vorrei,
ma son minute fiaccole, e cadenti,
dirimpetto al tuo sole i detti miei.

Ritornello

Son rubin preziosi
i tuoi labbri amorosi,
il mio core costante
è di saldo diamante,
così le tue bellezze, ed il mio core
di care gemme ha fabbricato Amore.
Son rose senza spine
le guance tue divine,
gigli, e ligustri eccede
il candor di mia fede,
così tra 'l tuo bel viso, ed il mio core
la primavera sua divide Amore.
Ond’io lieto men vo or tra gli amanti.

LUCANO
O felice Poppea
signor nelle tue lodi.
O felice Nerone
in grembo di Poppea.
Di Neron...

NERONE, LUCANO
Di Poppea cantiamo i canti,
Di Neron cantiamo i vanti.

NERONE
Apra le cataratte il ciel d'amore.

LUCANO
E diluvi, ed inondi a tutte l'ore...

NERONE, LUCANO
Felicità sovra gli amati amanti.

Scena Sesta

NERONE
O come, o come a tempo,
bella adorata mia, mi sopraggiungi.
Io stavo contemplando
col pensier il tuo volto,
or con occhi idolatri io lo vagheggio;
occhi cari, occhi dolci,
al cui negro amoroso
cede la luce del più caro dì,
da voi lo strale uscì,
che mi piagò soavemente il core,
per voi vive Nerone, e per voi more.

POPPEA
Ed io non trovo giorno,
dove tu non risplendi,
e non vuole il cor mio,
ch'alcun aria da me sia respirata,
se non è dal tuo viso illuminata,
viso che circondato
di maestà amorosa,
passando per quest'occhi al cor m'entrò,
ond'io per sempre avrò,
del tuo divin sembiante, o mio signore,
un ritratto negl'occhi, ed un nel core.

NERONE
Deh perché non son io
sottile, e respirabile elemento,
per entrar mia diletta
in quella bocca amata,
che passerei per uscio di rubino
a baciar di nascosto un cor divino?

POPPEA
Deh perché non son'io
l'ombra del tuo bel corpo, o mio signore,
per assisterti sempre
in compagnia d'Amore?
Deh faccia il ciel, per consolar mio duolo
di te, di me, signor, un corpo solo.

NERONE, POPPEA
Partiam partiamo,
ben tosto si unirà.
Né più si scioglierà la destra, e 'l core;
tu di là,
io di qua.
Ahi che di pianto omai le luci ho piene,
ma ben presto verran l'ore serene.

Scena Settima

(Ottone s’adira contro a se medesimo delli pensieri
avuti di voler offendere Poppea nel disperato affetto
della quale si contenta viver soggetto)

OTTONE
I miei subiti sdegni,
la politica mia già poco d'ora
m'indussero a pensare
d'uccidere Poppea.
Oh mente maledetta,
perché se' tu immortale, ond'io non posso
svenarti, e castigarti?
Pensai, parlai d'ucciderti, ben mio?
Il mio genio perverso,
rinnegati gl'affetti,
ch'un tempo mi donasti,
piegò, cadé, proruppe
in un pensier sì detestando, e reo.
Cambiatemi quest'anima deforme,
datemi un altro spirito meno impuro
per pietà vostra, o dèi!
rifiuto un intelletto,
che discorre impietadi
che pensò sanguinario, ed infernale
d'offendere il mio bene, e di svenarlo.
Isvieni, tramortisci,
scellerata memoria, in ricordarlo.
Sprezzami quanto sai,
odiami quanto vuoi,
voglio esser Clizia al sol de' lumi tuoi.
Amerò senza speme
al dispetto del fato,
fia mia delizia, amarti disperato.
Blandirò i miei tormenti,
nati dal tuo bel viso,
sarò dannato, sì, ma in paradiso.

Scena Ottava

(Ottavia imperatrice comanda ad Ottone, che uccida
Poppea sotto pena della sua indignazione, e che per
sua salvezza si ponga in abito femminile, Ottone tutto
si contrista e parte confuso)

OTTAVIA
Tu che dagli avi miei
avesti le grandezze,
se memoria conservi
de' benefici avuti, or dammi aita.

OTTONE
Maestade, che prega
è destin che necessita: son pronto
a servirti, o regina,
quando anco bisognasse
sacrificare a te la mia ruina.

OTTAVIA
Voglio che la tua spada
scriva gl'obblighi miei
col sangue di Poppea; vuò che l'uccida.

OTTONE
Che uccida chi?

OTTAVIA
Poppea.

OTTONE
Che uccida chi?

OTTAVIA
Poppea, perché?
Dunque ricusi
quel che già promettesti?

OTTONE
Io ciò promisi?

(Fra sè)

Urbanità di complimento umile,
modestia di parole costumate,
a che pena mortal mi condannate?

OTTAVIA
Che discorri fra te?

OTTONE
Discorro il modo
più cauto, e più sicuro
d'una impresa sì grande.

(Fra sè)

O ciel, o dèi,
in questo punto orrendo
ritoglietemi i giorni, e i spirti miei.

OTTAVIA
Che mormori?

OTTONE
Fo voti alla fortuna,
che mi doni attitudine a servirti.

OTTAVIA
E perché l'opra tua
quanto più presta fia, tanto più cara,
precipita gl'indugi.

OTTONE
(Fra sè)
Sì tosto ho da morir?

OTTAVIA
Ma che frequenti
soliloqui son questi? Ti protesta
l'imperial mio sdegno,
che se non vai veloce al maggior segno,
pagherai la pigrizia con la testa.

OTTONE
Se Neron lo saprà?

OTTAVIA
Cangia vestiti.
Abito muliebre ti ricopra,
e con frode opportuna,
sagace esecutor t'accingi all'opra.

OTTONE
Dammi tempo, ond'io possa
inferocir i sentimenti miei,
disumanare il core!

OTTAVIA
Precipita gl'indugi.

OTTONE
Dammi tempo, ond'io possa
imbarbarir la mano;
assuefar non posso in un momento
il genio innamorato
nell'arti di carnefice spietato.

OTTAVIA
Se tu non m'ubbidisci,
t'accuserò a Nerone,
ch'abbia voluto usarmi
violenze inoneste,
e farò sì, che ti si stanchi intorno
il tormento, e la morte in questo giorno.

OTTONE
Ad ubbidirti, imperatrice, io vado.
O ciel, o dèi, in questo punto orrendo
ritoglietemi i giorni e i spirti miei.

Scena Nona

(Drusilla vive consolata dalle promesse amorose di
Ottone, e Valletto scherza con la Nutrice sopra la
sua vecchiaia)

DRUSILLA
Felice cor mio
festeggiami in seno,
dopo i nembi, e gl'orror godrò il sereno.
Oggi spero ch'Ottone
mi riconfermi il suo promesso amore,
felice cor mio
festeggiami in seno,
festeggiami nel sen, lieto mio core.

VALLETTO
Nutrice, quanto pagheresti un giorno
d'allegra gioventù, com'ha Drusilla?

NUTRICE
Tutto l'oro del mondo io pagherei.
L'invidia del ben d'altri,
l'odio di sé medesma,
la fiacchezza dell'alma,
l'infermità del senso:
son quattro ingredienti,
anzi i quattro elementi
di questa miserabile vecchiezza,
che canuta e tremante,
dell'ossa proprie è un cimitero andante.

DRUSILLA
Non ti lagnar così, sei fresca ancora;
non è il sol tramontato
se ben passata è la vermiglia aurora.

Ritornello

NUTRICE
Il giorno femminil
trova la sera sua nel mezzo dì.
Dal mezzo giorno in là
sfiorisce la beltà;
col tempo si fa dolce
il frutto acerbo, e duro,
ma in ore guasto vien, quel ch'è maturo.
Credetel pure a me,
o giovanette fresche in sul mattin;
Primavera è l’età
Ch’Amor con voi si sta;
Non lasciate che passi
il verde april o’l maggio.
Si suda troppo in Iuglio a far viaggio.

VALLETTO
Andiam a Ottavia omai
signora nonna mia...

NUTRICE
Ti darò una guanciata!

VALLETTO
Venerabile antica.

NUTRICE
Bugiardello!

VALLETTO
Del buon Caronte idolatrata amica.

NUTRICE
Che sì, bugiardello insolente, che sì.

VALLETTO
Andiam, che in te è passata
la mezza notte, nonché il mezzo dì.

Scena Decima

(Ottone palesa a Drusilla dover egli uccider Poppea
per commissione d'Ottavia imperatrice, e chiede per
andar sconosciuto all'impresa gl'abiti di lei la quale
promette non meno gl'abiti che secretezza, ed aiuto)

OTTONE
Io non so dov'io vada;
il palpitar del core
ed il moto del piè non van d'accordo.
L'aria che m'entra in seno, quand'io respiro,
trova il mio cor sì afflitto
Ella si cangia in subitaneo pianto;
e così mentr'io peno,
l'aria per compassion mi piange in seno.

DRUSILLA
E dove signor mio?

OTTONE
Drusilla, Drusilla!

DRUSILLA
Dove, dove, signor mio?

OTTONE
Te sola io cerco.

DRUSILLA
Eccomi a' tuoi piaceri.

OTTONE
Drusilla, io vo' fidarti
un secreto gravissimo; prometti
e silenzio, e soccorso?

DRUSILLA
Ciò che del sangue mio, non che dell'oro,
può giovarti e servirti,
è già tuo più che mio.
Palesami il secreto,
che del silenzio poi
ti do l'anima in pegno, e la mia fede.

OTTONE
Non esser più gelosa
di Poppea...

DRUSILLA
No, no.

OTTONE
...di Poppea.

DRUSILLA
Felice cor mio, festeggiami in seno.

OTTONE
Senti, senti.

DRUSILLA
Festeggiami in seno...

OTTONE
Senti, io devo
or ora per terribile comando
immergerle nel sen questo mio brando.
Per ricoprir me stesso
in misfatto sì enorme
io vorrei le tue vesti.

DRUSILLA
E le vesti e le vene io ti darò.

OTTONE
Se occultarmi potrò, vivremo poi
uniti sempre in dilettosi amori;
se morir converrammi,
nell'idioma d'un pietoso pianto
dimmi esequie, o Drusilla,
se dovrò fuggitivo
scampar l'ira mortal di chi comanda,
soccorri a mie fortune.

DRUSILLA
E le vesti e le vene
ti darò volentieri;
ma circospetto va', cauto procedi.
Nel rimanente sappi
che le fortune e le ricchezze mie
ti saran tributarie in ogni loco;
e proverai Drusilla
nobile amante, e tale,
che mai, l'antica età non ebbe uguale.
Felice cor mio, festeggiami in seno.
Andiam pur, ch'io mi spoglio,
e di mia man travestirti io voglio.
Ma vuò da te saper più a dentro, e a fondo
di così orrenda impresa la cagione.

OTTONE
Andiam, andiam omai,
che con alto stupore il tutto udrai.

Scena Udecima

(Iliardino di Poppea. Poppea godendo della morte di
Seneca perturbatore delle sue grandezze prega Amor
che prosperi le sue fortune, e promette ad Arnalta sua
nutrice continuato affetto, ed'essendo colta dal sonno se
fa adagiar riposo nel giardino, dove da Arnalta con
nanna soave vien addormentata)


POPPEA
Or che Seneca è morto,
Amor ricorro a te,
guida mie spemi in porto,
fammi sposa al mio re.

ARNALTA
Pur sempre sulle nozze
canzoneggiando vai.

POPPEA
Ad altro, Arnalta mia, non penso mai.

ARNALTA
Il più inquieto affetto
è la pazza ambizione;
ma se arrivi agli scettri, e alle corone,
non ti scordar di me,
tiemmi appresso di te,
né ti fidar giammai di cortigiani,
perché in due cose sole
Giove è reso impotente:
ei non può far che in cielo entri la morte,
né che la fede mai si trovi in corte.

POPPEA
Non dubitar, che meco
sarai sempre la stessa,
e non fia mai che sia
altra che tu la secretaria mia.
Amor, ricorro a te,
guida mia speme in porto,
fammi sposa al mio re.
Par che 'l sonno m'alletti
a chiuder gl'occhi alla quiete in grembo.
Qui nel giardin, o Arnalta,
fammi apprestar del riposare il modo,
ch'alla fresc'aria addormentarmi io godo.

ARNALTA
Udiste, ancelle, olà!

POPPEA
Se mi trasporta il sonno
oltre gli spazi usati,
a risvegliarmi vieni;
né conceder l'ingresso nel giardino
fuor ch'a Drusilla, o ad altre confidenti.

ARNALTA
Adagiati, Poppea,
acquietati, anima mia:
sarai ben custodita.
Oblivion soave
i dolci sentimenti
in te, figlia, addormenti.
Posatevi occhi ladri,
aperti deh che fate,
se chiusi ancor rubate?
Poppea, rimanti in pace;
luci care e gradite,
dormite omai dormite.
Amanti vagheggiate
il miracolo novo:
è luminoso il dì, sì come suole,
e pur vedete, addormentato il sole.

Scena Dodicesima

(Amore scende dal Cielo, mentre Poppea dorme)

AMORE
Dorme, l'incauta dorme,
ella non sa,
ch'or or verrà
il punto micidiale;
così l'umanità vive all'oscuro,
e, quando ha chiusi gl'occhi
crede essersi dal mal posta in sicuro.
O sciocchi, o frali
sensi mortali
mentre cadete in sonnacchioso oblio
sul vostro sonno è vigilante dio.

Ritornello

Dormi, o Poppea,
terrena dèa;
ti salverà dall'armi altrui rubelle,
Amor che move il sol e l'altre stelle.
Già s'avvicina
la tua ruina;
ma non ti nuocerà strano accidente,
ch'Amor picciolo è sì, ma onnipotente.

Scena Tredicesima

(Ottone travestito da Drusilla capita nel giardino dove
sta addormentata Poppea per ucciderla, e Amor lo
vieta. Poppea nel fatto si sveglia, e inseguito (Ottone
creduto Drusilla) dalle Serventi di Poppea fugge.
Amor, protestando voler oltre la difesa di Poppea
incoronarla in quel giorno imperatrice, se ne vola
al cielo, e fornisse l'atto secondo)

OTTONE
Eccomi trasformato,
d'Otton in Drusilla.
No, non d’Otton in Drusilla,
ma d'uom in serpe, al cui veleno, e rabbia
non vide il mondo, e non vedrà simile.
Ma che veggio infelice?
Tu dormi anima mia? Chiudesti gl'occhi
per non aprirli più? Care pupille,
il sonno vi serrò
affinché non vediate
questi prodigi strani:
la vostra morte uscir dalle mie mani.
Ohimè, trema il pensiero, il moto langue,
e 'l cor fuor del suo sito
ramingo per le viscere tremanti
cerca un cupo recesso per celarsi,
o involto in un singulto,
ei tenta di scampar fuor di me stesso,
per non partecipar d'un tanto eccesso.
Ma che tardo? Che bado?
Costei m'aborre, e sprezza, e ancor io l'amo?
Ho promesso ad Ottavia: se mi pento
accelero a miei dì funesto il fine.
Esca di corte chi vuol esser pio.
Colui ch'ad altro guarda,
ch'all'interesse suo, merta esser cieco.
Il fatto resta occulto,
la macchiata coscienza
si lava finalmente con l'oblio.
Poppea, t'uccido; Amor, rispetti, addio.

AMORE
Forsennato, scellerato,
inimico del mio nume,
tanto adunque si presume?
Fulminarti io ti dovrei,
ma non merti di morire
per la mano degli dèi.
Illeso va' da questi strali acuti,
non tolgo al manigoldo i suoi tributi.

POPPEA
Drusilla, in questo modo,
con l'armi ignude in mano,
mentre nel mio giardin dormo soletta?

ARNALTA
Accorrete, accorrete,
o servi, o damigelle,
inseguir Drusilla, dalli, dalli,
tanto mostro a ferir non sia chi falli.
dalli, dalli, dalli, dalli!.

AMORE
Ho difesa Poppea,
vo' farla imperatrice
Ho difesa Poppea!

Sinfonia



ATTO TERZO


Scena Prima

(Drusilla gioisce sperando di breve intender la morte
di Poppea sua rivale per goder degl'amori di Ottone)

DRUSILLA
O felice Drusilla, o che sper'io;
corre adesso per me l'ora fatale,
perirà, morirà la mia rivale,
e Otton finalmente sarà mio.
O che spero, che sper'io?
Se le mie vesti
avran servito
per ben coprirlo,
con vostra pace, o dèi,
adorar io vorrò gl'arnesi miei.
O felice Drusilla, o che sper'io?

Scena Seconda

(Arnalta nutrice di Poppea, con Littore con molti Simili
fa prender Drusilla, la quale si duole di sé medesma)

ARNALTA
Ecco la scellerata
che pensando occultarsi,
di vesti s'è mutata.

DRUSILLA
E qual peccato...

LITTORE
Fermati, morta sei.

DRUSILLA
E qual peccato mi conduce a morte?

LITTORE
Ancor t'infingi, sanguinaria indegna?
A Poppea dormiente
macchinasti la morte.

DRUSILLA
Ahi caro amico, ahi sorte,
ahi mie vesti innocenti!
Di me doler mi deggio, e non d'altrui;
credula troppo, e troppo incauta fui.

Scena Terza

(Nerone interroga Drusilla del tentato omicidio, lei per
salvar dall'ira di Nerone, Ottone suo amante, confessa
per odio antico (benché innocente) aver voluto uccider
Poppea, ove da Nerone vien sentenziata a morte.

ARNALTA
Signor, ecco la rea
che uccidere tentò
la matrona Poppea;
l'innocente dormia nel suo giardino,
sopraggiunse costei col ferro ignudo,
se non si risvegliava in un momento
la tua devota ancella,
sopra di lei cadeva il colpo crudo.

NERONE
Onde tanto ardimento? E chi t'indusse
rubella al tradimento?

DRUSILLA
Innocente son io,
lo sa la mia coscienza, e lo sa dio.

NERONE
No, no, confessa omai, se t'indusse,
s'attentasti per odio, o se ti spinse
l'autoritade, o l'oro al gran misfatto.

DRUSILLA
Innocente son io,
lo sa la mia coscienza, e lo sa dio.

NERONE
Tormenti, funi e fochi
cavino da costei
il mandante e i correi.

DRUSILLA
(Fra sè)
Misera me, piuttosto
che un atroce tormento
mi faccia dir quel che ridir non voglio,
sopra me stessa toglio
la sentenza mortal, e 'l monumento.
O voi, ch'al mondo vi chiamate amici,
deh, specchiatevi in me:
questi del vero amico son gl’uffici.

ARNALTA
Che cinguetti ribalda?

LITTORE
Che vaneggi assassina?

NERONE
Che parli traditrice?

DRUSILLA
(Fra sè)
Mi contrastano in seno
con fiera concorrenza
amore e l'innocenza.

NERONE
Prima ch'aspri tormenti
ti facciano sentir il mio disdegno,
or persuadi all'ostinato ingegno
di rivelar gl'orditi tradimenti.

DRUSILLA
Signor, io fui la rea,
ch'uccidere tentò
l'innocente Poppea.
Quest'alma, e questa mano
fur le complici sole;
a ciò m'indusse un odio occulto antico;
non cercar più, la verità ti dico.

NERONE
Conducete costei
al carnefice omai,
fate ch'egli ritrovi,
con una morte a tempo,
qualche lunga, amarissima agonia,
ch'inasprisca la morte a questa ria.

DRUSILLA
(Fra sè)
Adorato mio bene
amami almen sepolta,
e sul sepolcro mio
mandino gl'occhi tuoi solo una volta
dalle fonti del core
lacrime di pietà, se non d'amore;
ch'io vado vera amica e fida amante
tra i manigoldi irati
a coprir col mio sangue i tuoi peccati.

NERONE
Che si tarda, o ministri?
Con una atroce fine
provi, provi costei
mille morti oggi mai, mille ruine.

Scena Quarta

(Ottone vedendo rea l'innocente Drusilla palesa sé
medesimo, colpevole del fatto confessando aver
voluto commettere il delitto per commissione d'Ottavia
imperatrice, Nerone inteso ciò li salva la vita, dandoli
l'esilio, e spogliandolo di fortune, Drusilla chiede
in grazia d'andar in esilio seco e partono consolati,
Nerone decreta il ripudio d'Ottavia imperatrice, e
che oltre all'esilio sia posta in una barca nel mare
a discrezione de' venti)

OTTONE
No, no, questa sentenza
cada sopra di me che ne son degno.

DRUSILLA
Io fui la rea, ch'uccider volli
l'innocente Poppea.

OTTONE
Siatemi testimoni, o cieli, o dèi,
innocente è costei.

DRUSILLA
Quest'alma, e questa mano
fur le complici sole;
a ciò m'indusse un odio occulto antico;
non cercar più, la verità ti dico.

OTTONE
Innocente, innocente è costei.
Io con le vesti di Drusilla andai,
per ordine d'Ottavia imperatrice
ad attentar la morte di Poppea.
Dammi signor, con la tua man la morte.

DRUSILLA
Io fui la rea, ch'uccider volli
l'innocente Poppea.

OTTONE
Giove, Nemesi, Astrea
fulminate il mio capo,
che per giusta vendetta
il patibolo orrendo a me s'aspetta.

DRUSILLA
A me s'aspetta.

OTTONE
A me s'aspetta.

DRUSILLA
A me.

OTTONE
A me.

DRUSILLA
A me.

OTTONE
A me s'aspetta.
Dammi signor, con la tua man la morte;
e se non vuoi che la tua mano adorni
di decoro il mio fine,
mentre della tua grazia io resto privo,
all'infelicità lasciami vivo.
Se tu vuoi tormentarmi
la mia coscienza ti darà i flagelli;
s'a leoni, ed a gl'orsi espormi vuoi,
dammi in preda al pensier de le mie colpe,
che mi divorerà l'ossa e le polpe.

NERONE
Vivi, ma va' ne' più remoti lidi
di titoli spogliato, e di fortune,
e serva a te mendico, e derelitto,
di flagello e spelonca il tuo delitto.
E tu ch'ardisti tanto, o nobile matrona,
per ricoprir costui
d'apportar salutifere bugie,
vivi alla fama della mia clemenza,
vivi alle glorie della tua fortezza,
e sia del sesso tuo nel secol nostro
la tua costanza un adorabil mostro.

DRUSILLA
In esilio con lui
deh, signor mio, consenti,
ch'io tragga i dì ridenti.

NERONE
Vanne come ti piace.

OTTONE
Signor, non son punito, anzi beato;
la virtù di costei
sarà richezza, e gloria a' giorni miei.

DRUSILLA
Ch'io viva, e mora teco: altro non voglio.
Dono alla mia fortuna
tutto ciò che mi diede,
purché tu riconosca
in cor di donna una costante fede.

LITTORE
Orsù, orsù finiamola, andate alla malora.

NERONE
Delibero e risolvo
con editto solenne
il ripudio d'Ottavia,
e con perpetuo esilio
da Roma io la proscrivo.
Sia pur condotta al più vicino lido.
Le s'appresti in momenti
qualche spalmato legno,
e sia commessa al bersagliar de' venti.
Convengo giustamente risentirmi.
Volate ad ubbidirmi.

Scena Quinta

(Nerone giura a Poppea, che sarà in quel giorno
sua sposa)

POPPEA
Signor, oggi rinasco ai primi fiori
di questa nova vita,
voglio che sian sospiri
che ti facciano fede
che, rinata per te, languisco e moro,
e morendo e vivendo ognor t'adoro.

NERONE
Non fu, non fu Drusilla, no,
ch'ucciderti tentò.

POPPEA
Chi fu, chi fu il fellone?

NERONE
Il nostro amico Ottone.

POPPEA
Egli da sé?

NERONE
D'Ottavia fu il pensiero.

POPPEA
Or hai giusta cagione
di passar al ripudio.

NERONE
Oggi, come promisi,
mia sposa tu sarai.

POPPEA
Sì caro dì, veder non spero mai.

NERONE
Per il nome di Giove, e per il mio,
te l'affermo, e te 'l giuro,
di Roma imperatrice,
in parola regal.

POPPEA
In parola regal?

NERONE
In parola regal te n'assicuro.

POPPEA
Idolo del cor mio, giunta è pur l’ora
ch'io del mio ben godrò.

NERONE, POPPEA
Né più s'interporrà noia o dimora.
Cor nel petto non ho:
me 'l rubasti, sì, sì,
dal sen me lo rapì
de' tuoi begl'occhi il lucido sereno.
Per te, ben mio, non ho più core in seno.
Stringerò tra le braccia innamorate
chi mi trafisse... ohimè!
Non interrotte avrà l'ore beate,
se son perduto(a) in te,
in te mi cercherò,
in te mi troverò,
e tornerò a riperdermi ben mio,
che sempre in te perduto(a) esser vogl'io.

Scena Sesta

(Ottavia ripudiata da Nerone deposto l'abito imperiale
parte sola miseramente piangendo in abbandonare la
patria ed i parenti)

OTTAVIA
Addio Roma, addio patria, amici addio.
Innocente da voi partir convengo.
Vado a patir l'esilio in pianti amari,
navigo disperata i sordi mari.
L'aria, che d'ora in ora
riceverà i miei fiati,
li porterà, per nome del cor mio,
a veder, a baciar le patrie mura,
ed io, starà solinga,
alternando le mosse ai pianti, ai passi,
insegnando pietade ai tronchi, e ai sassi.
Remigate oggi mai perverse genti,
allontanatemi dagli amati lidi.
Ahi, sacrilego duolo,
tu m'interdici il pianto
mentre lascio la patria,
né stillar una lacrima poss'io
mentre dico ai parenti e a Roma: addio.

Scena Settima

(Arnalta, nutrice e consigliera di Poppea, gode
in vedersi assunta al grado di confidente d'una
imperatrice, e giubila de' suoi contenti)

ARNALTA
Oggi sarà Poppea
di Roma imperatrice;
io, che son sua nutrice,
ascenderà delle grandezze i gradi:
no, no, col volgo io non m'abbasso più;
chi mi diede del tu,
or con nova armonia
gorgheggerammi il «vostra signoria»;
chi m'incontra per strada
mi dice: «fresca donna e bella ancora»;
ed io, pur so che sembro
delle sibille il leggendario antico;
ma ogn'un così m'adula,
credendo guadagnarmi
per interceder grazie da Poppea:
ed io fingendo non capir le frodi,
in coppa di bugia bevo le lodi.
Io nacqui serva, e morirò matrona.
Mal volentier morrò;
se rinascessi un dì,
vorrei nascer matrona e morir serva.
Chi lascia le grandezze
piangendo a morte va;
ma, chi servendo sta,
con più felice sorte,
come fin degli stenti ama la morte.

Scena Ultima

(Il palazzo di Nerone. Nerone solennemente assiste alla
coronazione di Poppea, la quale a nome del popolo, del
senato romano viene indiademata da Consoli e Tribuni,
Amor parimenti cala dal cielo con Venere, Grazie ed
Amori, e medesimamente incorona Poppea come dèa
delle bellezze in terra, e fornisse l'opera)

NERONE
Ascendi, o mia diletta,
della sovrana altezza
all'apice sublime;
blandita di glorie
ch'ambiscono servirti come ancelle;
acclamata dal mondo e dalle stelle;
siano del tuo trionfo
tra i più cari trofei,
adorata Poppea, gl'affetti miei.

POPPEA
La mia mente confusa,
al non usato lume,
quasi perde il costume,
signor, di ringraziarti.
Su quest'eccelse cime,
ove mi collocasti,
per venerarti a pieno,
io non ho cor che basti.
Doveva la natura,
al soprappiù degli eccessivi affetti,
un core a parte fabbricar ne' petti.

NERONE
Per capirti negl'occhi
il sol s'impicciolì,
per albergarti in seno
l'alba dal ciel partì,
e per farti sovrana a donne, e a dèe,
Giove nel tuo bel volto,
stillò le stelle e consumò l'idee.

POPPEA
Dà licenza al mio spirto,
ch'esca dall'amoroso laberinto
di tante lodi e tante,
e che s'umilii a te, come conviene,
mio re, mio sposo, mio signor, mio bene.

NERONE
Ecco vengono i consoli e i tribuni
per riverirti, o cara;
nel solo rimirarti,
il popol e 'l senato
omai comincia a divenir beato.

Sinfonia

CONSOLI, TRIBUNI
A te sovrana augusta.
Con il consenso universal di Roma,
indiademiam la chioma.
A te l'Asia, a te l'Africa s'atterra.
A te l'Europa, e 'l mar che cinge e serra
Quest'imperio felice,
ora consacra e dona
questa del mondo imperial corona.

Sinfonia

AMORE
Scendiam, scendiamo
compagni alati.

CORO D’AMORI
Voliam, voliamo
ai sposi amati.

AMORE
Al nostro volo,
risplendano assistenti i sommi divi.

CORO D’AMORI
Dall'alto polo
si veggian fiammeggiar raggi più vivi.

AMORE
Se i consoli e i tribuni,
Poppea, t'han coronato
sopra province e regni,
or ti corona, Amor, donna felice,
come sopra le belle imperatrice.
Madre, madre, sia con tua pace
in ciel tu sei Poppea,
questa è Venere in terra,
a cui per riverirla
ogni forma creata oggi s'atterra.

VENERE
Io mi compiaccio, o figlio
di quanto aggrada a te;
diasi pur a Poppea
il titolo di dèa.

POPPEA, NERONE
Su, su, Venere ed Amor
Esalti, lodi l’alma, esalti il cor!
Nessun fuga l’aurea face,
Benché strugga sempre piace.
Su, su, Venere ed Amor
Esalti, lodi l’alma, esalti il cor!

AMORI
Or cantiamo giocondi,
festeggiamo ridenti in terra, e in cielo
il gaudio sovrabbondi,
e in ogni clima, in ogni regione
si senta rimbombar «Poppea e Nerone».

POPPEA, NERONE
Pur ti miro, pur ti godo,
pur ti stringo, pur t'annodo,
più non peno, più non moro,
o mia vita, o mi tesoro.
Io son tua...
Tuo son io...
Speme mia, dillo, dì,
tu sei pur, l'idol mio,
sì, mio ben,
sì, mio cor, mia vita, sì.
Pur ti miro, pur ti godo,
pur ti stringo, pur t'annodo,
più non peno, più non moro,
o mia vita, o mi tesoro.


Sinfonía

PRÓLOGO

(Fortuna, Virtud, Amor)

(Escena aérea, con el horizonte debajo. La
Fortuna, la Virtud y el Amor están sobre las
nubes discutiendo su supremacía, y el Amor
consigue la preeminencia)

FORTUNA
Escóndete, pues, Virtud,
caída ya en la pobreza,
deidad no creída,
numen sin templo,
divinidad sin devotos y sin altares,
desaparecida,
abandonada,
aborrecida,
mal agradecida,
y comparada conmigo, siempre escarnecida.
Antes reina, ahora plebeya,
para compartir los alimentos y vestidos,
debiste vender privilegios y títulos.
Cualquiera que te profese,
si se aleja de mí,
se asemeja a un fuego pintado
que ni calienta ni brilla;
queda sólo un color como apagado,
carente de luz.
Quien profese la virtud,
no espere nunca poseer riqueza ni gloria alguna
si no está protegido por la Fortuna.

VIRTUD
Te lo ruego, desaparece malnacida,
vil quimera de los hombres,
elevada a diosa por los imprudentes.
Yo soy la verdadera escala
por la que la naturaleza al supremo bien asciende.
Yo soy la tramontana
que enseño al intelecto humano
el arte de navegar hacia el Olimpo.
Puede decirse, sin adulación alguna,
que mi puro e incorruptible ser
es parejo al de los dioses;
algo que no puede decirse de ti, Fortuna.

AMOR
¿Qué os creéis, oh diosas,
para dividir entre vosotras
el señorío y el gobierno del mundo,
excluyendo al Amor,
un dios tan superior a ambas?
Yo enseño las virtudes,
yo someto las fortunas,
esta edad infantil
vence en antigüedad
al tiempo y a cualquier otro dios.
Gemelos somos la eternidad y yo.
Reverenciadme,
adoradme,
y el nombre de soberano dadme.

FORTUNA, VIRTUD
No hay corazón humano ni celeste
que ose competir con Amor.

AMOR
Hoy comprobaréis, en un solo certamen,
la una y la otra derrotadas por mí,
que puedo mudar el mundo a mi antojo.

(A un gesto de Amor, el cielo se desvanece)



ACTO PRIMERO


(El escenario es la ciudad de Roma)

Escena Primera

(Exterior del palacio de Popea, al amanecer.
En la puerta, dos soldados de la guardia de
Nerón que duermen. Otón, amante de Popea,
visita la casa de su amada al romper el alba,
expresando su pasión amorosa. Al ver a los
guardias de Nerón, que permanece feliz dentro
del palacio, se lamenta de su miseria)

Ritornello

OTÓN
Y de nuevo vuelvo aquí, como la línea al centro,
como el fuego a la esfera y como el arrollo al mar.
Y aunque no me ilumine luz alguna,
¡ah, sé bien que mi sol está ahí dentro!
Querido techo amoroso,
albergue de mi vida y de mi bien,
mis pasos y mi corazón vienen a inclinarse ante ti.
Abre tu balcón, Popea,
y con tu hermoso rostro que alberga mi destino,
¡anuncia, alma mía, anticípate a la mañana!
Sal y disipa
las brumas y tinieblas de este cielo
con el alegre abrir de tus párpados.
¡Sueños, llevad volando
y haced oír en dulce fantasía
estos suspiros a mi amada!
Pero ¿qué veo, infeliz?
No son fantasmas ni espectros nocturnos,
¡estos son los siervos de Nerón!
Así, pues, a los insensibles vientos
confiaré mis lamentos.
Necesito que las piedras me compadezcan,
pues estoy adorando a estos mármoles,
he bañado con lágrimas de amor a un balcón,
¡y Popea duerme en brazos de Nerón!
Ha traído a estos
para protegerse a sí mismo de los engaños.
¡Oh, seguridad de los príncipes infelices!
Duermen profundamente sus custodios.
¡Ah, pérfida Popea!
¿Son éstas las promesas y juramentos
que inflamaron mi corazón?
¿Es ésta la fidelidad? ¡Oh, dioses!
Yo soy ese Otón
que te siguió,
que te deseó,
que te sirvió,
que te adoró,
que para doblegarte y someter tu corazón,
adornó de lágrimas cual perlas sus ruegos
sacrificando su propio espíritu como ofrenda.
Me aseguraste al fin
que abrazaría tu bello pecho
y alcanzaría la alegría del amor.
Yo, de la crédula esperanza esparcí las semillas,
pero el aire y el cielo se han vuelto en mi contra...

Escena Segunda

(Otón y los dos soldados. Los soldados de
Nerón se despiertan y maldicen los amores
de Popea y Nerón¸ asimismo murmuran
sobre la corte)

PRIMER SOLDADO
¿Quién habla?

OTÓN
Y han arruinado...

PRIMER SOLDADO
¿Quién habla?

OTÓN
...mi cosecha.

PRIMER SOLDADO
¿Quién anda ahí?

SEGUNDO SOLDADO
Camarada, camarada...

PRIMER SOLDADO
¡Ay, aún no es de día!

SEGUNDO SOLDADO
Camarada, ¿qué haces?
Parece que hablas soñando.

PRIMER SOLDADO
Surgen los primeros rayos del alba.

SEGUNDO SOLDADO
¡Arriba! ¡Despiértate, rápido...

PRIMER SOLDADO
No he dormido en toda la noche.

SEGUNDO SOLDADO
¡Arriba! ¡Despiértate rápido!
Guardemos nuestro puesto.

PRIMER SOLDADO
¡Malditos sean Amor, Popea, Nerón,
Roma y la milicia!
No puedo dedicar a la pereza
ni una hora, ni tan solo un día.

SEGUNDO SOLDADO
Nuestra emperatriz
se deshace en llanto,
pues Nerón la rechaza por Popea.
Armenia se rebela,
pero él no piensa en ello.
Panonia se levanta en armas y él se ríe.
Así, por lo que veo,
el imperio va de mal en peor.

PRIMER SOLDADO
Di también que nuestro príncipe roba a todos
para dárselo a algunos.
La inocencia se castiga
y los malvados están siempre a su derecha.

SEGUNDO SOLDADO
Sólo del pedante Séneca se fía.

PRIMER SOLDADO
¿De ese viejo rapaz?

SEGUNDO SOLDADO
¡De ese zorro sagaz!

PRIMER SOLDADO
¿De ese malvado cortesano
que hace su fortuna
traicionando al compañero?

SEGUNDO SOLDADO
¡De ese impío arquitecto
que levanta su casa sobre los sepulcros de otros!

PRIMER SOLDADO
No repitas a nadie esto que decimos.
Ten cuidado en quién confías;
aunque los ojos no se fíen uno de otro,
siempre miran juntos.

AMBOS
Aprendamos de los ojos
a no comportarnos como idiotas.

PRIMER SOLDADO
Pero ya asoma el alba y llega el día.

AMBOS
¡Calla, Nerón viene!

Escena Tercera

(Popea y Nerón salen al alba abrazados
amorosamente y se despiden con afectuosa
ternura)

POPEA
¡Señor, ah, no te vayas!
Deja que estos brazos
te rodeen el cuello
igual que tu belleza
envuelve mi corazón.

NERÓN
Popea, deja que me vaya.

POPEA
¡No te vayas, señor, no te vayas!
Apenas despunta el alba,
y tú que eres mi sol encarnado,
mi luz palpable
y el día amoroso de mi vida.
¿Quieres alejarte de mí tan rápidamente?
¡Ah, no hables de irte!
Que el solo sonido de una palabra tan amarga
hace que sienta morir a mi propia alma.

NERÓN
Tu nobleza de nacimiento
no nos permite que Roma
sepa de nuestra unión
antes que Octavia...

POPEA
Antes que...

NERÓN
Antes que Octavia no quede excluida...

POPEA
No quede...

NERÓN
Antes de que Octavia no quede excluida
mediante mi repudio.

POPEA
Ve, bien mío...

Ritornello

NERÓN
En un suspiro que viene
de lo más profundo del pecho,
incluyo un beso ¡oh, querida! y un adiós.
Volveremos a vernos pronto, ídolo mío.

Ritornello

POPEA
Señor, siempre me ves,
o mejor, nunca me ves.
¿Por qué si es verdad que estoy en tu corazón
y oculta en tu pecho,
no puedo ser mirada por tus ojos?

NERÓN
¡Adorados luceros,
quedaos aquí!
Sigue siendo, ¡oh, mi Popea!
mi corazón, mi encanto y mi luz.

POPEA
¡Ah, no hables de irte!
Que el solo sonido de una palabra tan amarga
hace que sienta morir a mi propia alma.

NERÓN
No temas, tú estás conmigo a todas horas,
esplendor de mis ojos y diosa de mi corazón.

POPEA
¿Volverás?

NERÓN
Aunque me vaya,
contigo estoy.

POPEA
¿Volverás?

NERÓN
Mi corazón de tus luceros
no puede apartarse.

POPEA
¿Volverás?

NERÓN
No puedo vivir separado de ti,
si no se desmiembra la unidad del punto.

POPEA
¿Volverás?

NERÓN
Volveré.

POPEA
¿Cuándo?

NERÓN
Bien pronto.

POPEA
Bien pronto. ¿Me lo prometes?

NERÓN
Te lo juro.

POPEA
¿Y lo cumplirás?

NERÓN
Si yo no vengo a ti, tú vendrás a mí.

POPEA
¡Adiós!...

NERÓN
¡Adiós!...

POPEA
¡Nerón, Nerón, adiós!

NERÓN
¡Popea, Popea, adiós!

POPEA
¡Adiós, Nerón, adiós!

NERÓN
¡Adiós, Popea, bien mío!

Escena Cuarta

(Popea discute con su vieja consejera
Arnalta sobre sus esperanzas de grandeza.
Arnalta la alecciona y le recomienda no
fiarse de los grandes, ni confiar tanto en
la diosa Fortuna)

Ritornello

POPEA
Esperanza, tú me vas
acariciando el corazón.
Esperanza, tú me vas
deleitando el ánimo
y me rodeas mientras tanto
de un regio, sí, pero imaginario manto.
No, no temo desventura alguna,
a mi favor luchan Amor y Fortuna.

ARNALTA
¡Ay, hija! Quiera el cielo
que estos abrazos
no sean un día tu perdición.

POPEA
No, no temo desventura alguna.

ARNALTA
La emperatriz Octavia ha descubierto
los amores de Nerón.
Siento pavor y temo que,
en cualquier día, en cualquier momento,
llegue el fin de tus días.

POPEA
Por mí guerrean Amor y Fortuna.

ARNALTA
Frecuentar a los reyes es peligroso,
el amor y el odio no tienen fuerza en ellos,
sus afectos son sólo puros intereses.
Si Nerón te ama, es mera cortesía,
y si te abandona, no puedes dolerte.
Como mal menor te convendría callar.

POPEA
No, no temo desventura alguna.

ARNALTA
El grande siempre honra con su presencia,
y deja, mientras llena la casa de aire,
reputación y humo como recompensa.
Pierdes el honor al decir: "Nerón me goza".
Son inútiles los vicios ambiciosos,
prefiero los pecados beneficiosos.
Con él no puedes tratar de igual a igual,
y si tu objetivo y final es una boda,
estás mendigando tu propia ruina.

POPEA
No, no temo desventura alguna.

ARNALTA
Mira, mira, Popea,
donde el prado es más ameno y placentero,
allí se esconde la serpiente.
Los golpes del destino son funestos,
la calma siempre presagia la tempestad.

POPEA
No, no temo desventura alguna,
por mí guerrean Amor y Fortuna.

ARNALTA
Estás bien loca si crees
que te pueden mantener contenta y a salvo
un niño ciego y una mujer calva.

Escena Quinta

(Habitaciones imperiales. La emperatriz Octavia
muestra sus preocupaciones a la nodriza,
lamentado la ausencia de su esposo Nerón. La
nodriza bromea con ella sobre los nuevos amores
para apartarla de esos pensamientos; Octavia,
persistente, persevera en su aflicción)

OCTAVIA
Reina despreciada,
del monarca romano afligida esposa,
¿Qué hago? ¿Dónde estoy?¿En qué pienso?
¡Oh, miserable sexo de las mujeres!
Si la naturaleza y el cielo
libres nos crean,
el matrimonio nos encadena como esclavas.
Si concebimos a un hombre,
¡oh, miserable sexo de las mujeres!,
formamos los miembros de nuestro impío tirano,
amamantamos al cruel verdugo
que nos descarna y nos desangra,
y estamos forzadas por la indigna suerte
a engendrar nosotras mismas a la muerte.
¡Nerón, impío Nerón,
marido, oh dioses, marido
por siempre injuriado y maldito
por mi sufrimiento
¿Dónde, ay, dónde estás?
En brazos de Popea
permaneces y disfrutas feliz, y mientras tanto,
el frecuente caer de mi llanto
va formando un diluvio de espejos
en los que miras dentro de tus delicias,
mi martirio.
Destino, si estás ahí arriba
¡Júpiter, escúchame tú!
¡Si para castigar a Nerón
no tienes rayos,
de impotencia te acuso,
de injusticia te inculpo!
¡Ay! He ido demasiado lejos y me arrepiento,
suprimo y entierro,
en taciturna agonía, mi tormento.

NODRIZA
Octavia, Octavia...

OCTAVIA
¡Oh cielos, que se extinga tu ira!
Que mis defectos no pongan a prueba tu rigor...

NODRIZA
¡Octavia, oh, única emperatriz
de todos los pueblos del universo!...

OCTAVIA
Erró la superficie, el fondo es puro,
inocente fue el corazón, pecó la lengua.

NODRIZA
...escucha, escucha.
De tu fiel nodriza oye el consejo.
Si Nerón ha perdido la cabeza
para gozar de Popea,
escoge a alguno que te sea digno
y se contente de abrazarte.
Si tanto gusta a Nerón la injuria,
ten placer tú también con la venganza.
Y si el áspero remordimiento del honor
te aflige,
reflexiona sobre mi discurso,
que todo dolor te será alegría.

OCTAVIA
Tan ruines argumentos
nunca oí de ti, nodriza.

NODRIZA
Reflexiona sobre mi discurso,
que todo dolor te será alegría.
La infamia está en soportar las afrentas
y consiste el honor en vengarse.
Tienen esta ventaja
los errores amorosos de las reinas:
si los sabe el idiota, no los cree,
si los descubre el astuto, los calla,
y el pecado callado y no creído
permanece secreto y seguro en cualquier parte,
como el que habla entre un sordo y un mudo.

OCTAVIA
No, mi querida nodriza,
la mujer asesinada por su marido
por deseos adúlteros
queda ultrajada, sí, pero no infame.
Por el contrario, queda
el esposo deshonrado
si mancilla el lecho conyugal.

NODRIZA
Hija y señora mía, tú no entiendes
el principal misterio de la venganza.
La ofensa en el rostro
de una sola guantada
se venga con el hierro y con la muerte.
A quien te hiera en los sentimientos
hiérele en el honor,
si quiero decirte la verdad
ni siquiera así estarás bien vengada.
En tus más profundos sentimientos te hiere Nerón,
¿y tú sólo le dañarás la reputación?
Reflexiona sobre mi discurso,
que todo dolor te será alegría.

OCTAVIA
Si no existiesen el honor ni los dioses,
sería yo misma mi propia diosa,
y mis fallos castigaría con mi propia mano;
pero por verme ajena a los errores, mientras tanto,
divido mi corazón entre la inocencia y el llanto.

Escena Sexta

(Séneca anima a Octavia a ser constante. El paje
de Octavia, para entretener a la emperatriz, se
burla de Séneca, al que se encomienda Octavia,
que se marcha a rezar al templo

SÉNECA
He aquí la desconsolada mujer
elevada al imperio
para sufrir la servidumbre.
¡Oh, gloriosa emperatriz del mundo!
Sobre los títulos excelsos
de tu insigne estirpe, conspicua y grande,
la vanidad del llanto de los ojos imperiales
es oficio indigno.
Da gracias a la Fortuna
que con sus golpes,
incrementa tus encantos.
La piedra no golpeada
no puede producir chispas;
tú, golpeada por el destino,
produces para ti misma altos esplendores
de vigor y fortaleza,
que son glorias mucho mayores que la belleza.
Los encantos del rostro y la figura,
que adornan la apariencia
y resplandecen coloridos y delicados,
son robados en unos pocos días ladrones.
Pero la virtud constante,
que desafía a las estrellas,
el destino y el azar, jamás ven el ocaso.

OCTAVIA
Tú me estás prometiendo
el bálsamo del veneno
y la gloria de los tormentos.
Perdóname, estos son, Séneca mío,
ilusiones engañosas,
estudiados artificios
e inútiles remedios para los infelices.

PAJE
Señora, con tu permiso,
quiero desahogar la rabia que me provoca
este filósofo tan astuto, que embaucaría a Júpiter.
Me hace inflamar de rabia
este acuñador de bellos conceptos.
No puedo contenerme
mientras engaña a otros con palabras de oro.
Éste vende las meras invenciones de su cerebro
como si fueran misterios… ¡y son canciones!
Señora, si él... estornuda o bosteza...
presume de enseñar cosas morales;
y tanto las deforma, que me hace reír.
¡Astuta filosofía! Donde ella reina
siempre hace lo contrario de lo que enseña.
Funda siempre el pedante
sobre la ignorancia de otros, su ganancia;
y es tan hábil argumentando,
que no tiene a Júpiter por dios,
sino por compañero.
Complica sus argumentos de tal modo,
que al fin, ni siquiera él mismo, sabe lo que dice.

OCTAVIA
Nerón pretende el repudio de mi persona
para así desposar a Popea.
Que se divierta si es posible divertirse
con tan indigno ejemplo.
Tú ruega por mí al pueblo y al Senado,
que yo me dirijo a poner mis votos en el templo.

PAJE
Si tú no socorres
a nuestra reina,
a fe mía que voy a encenderte fuego
en la barba y en la biblioteca...
¡A fe mía!

Escena Séptima

(Séneca reflexiona sobre la grandeza perecedera
del mundo)

SÉNECA
La púrpura real e imperial
de agudas espinas y tribulaciones está surcada,
y bajo la forma de vestimenta,
son el martirio de los príncipes infelices.
Las coronas eminentes
sirven sólo para laurear tormentos.
De la grandeza real se ven
la pompa y los esplendores,
pero están siempre invisibles los dolores.

Escena Octava

(Palas Atenea, desde el aire, predice la muerte
de Séneca, prometiéndole que recibirá antes un
aviso de Mercurio por ser un hombre virtuoso
y querido para ella, a lo que Séneca queda
agradecido)

PALAS ATENEA
Séneca, veo en el cielo infaustos rayos
que amenazan para ti una gran ruina.
Si hoy llega tu vida a su fin,
tendrás antes un aviso certero de Mercurio.

SÉNECA
Venga la muerte, pues,
constante y fuerte venceré las desgracias y los miedos.
Tras el girar de los días oscuros
la muerte es el alba de un día infinito.

Escena Novena

(Nerón intenta convencer a Séneca para que
éste secunde sus deseos. Séneca le responde
disuadiéndolo moral y políticamente. Nerón
se indigna y lo arroja de su presencia)

NERÓN
Estoy decidido en suma,
¡oh, Séneca! ¡oh, maestro!
a apartar a Octavia
de la condición de esposa
y a casarme con Popea.

SÉNECA
Señor, en el fondo de la mayor dulzura
se encuentra escondido el arrepentimiento.
Mal consejero es el sentimiento
que odia a las leyes y a la razón desprecia.

NERÓN
La ley es para quienes sirven, y si lo quiero,
puedo abolir la antigua y dictar otra nueva.
Está dividido el imperio: el cielo es de Júpiter,
pero el cetro del mundo es mío.

SÉNECA
El querer desordenado no es querer,
sino, con tu permiso, furor.

NERÓN
La razón es una medida rigurosa
para el que obedece y no para el que ordena.

SÉNECA
Pero las órdenes irracionales
destruyen la obediencia.

NERÓN
Deja el discurso, quiero hacerlo a mi manera.

SÉNECA
No irrites al pueblo y al Senado.

NERÓN
El Senado y el pueblo me traen sin cuidado.

SÉNECA
Que te importen al menos tú mismo y tu fama.

NERÓN
Arrancaré la lengua a quien ose reprocharme.

SÉNECA
Cuanto más los silencies más hablarán.

NERÓN
Octavia es frígida e infecunda.

SÉNECA
Quien no tiene razón, busca pretextos.

NERÓN
A quien puede lo que quiere, no le falta razón.

SÉNECA
Le faltan seguridad a las obras injustas.

NERÓN
Será siempre más justo, el más poderoso.

SÉNECA
Pero quien no sabe reinar, siempre puede menos.

NERÓN
La fuerza es la ley en la paz...

SÉNECA
La fuerza enciende los odios...

NERÓN
...y la espada en la guerra...

SÉNECA
...y remueve la sangre...

NERÓN
...y no tiene necesidad de la razón.

SÉNECA
La razón rige a los hombres y a los dioses.

NERÓN
¡Tú me empujas a la cólera!
A pesar de ti, del pueblo y del Senado,
de Octavia, del cielo y del abismo,
ya sean justos o injustos mis deseos,
¡hoy, hoy Popea será mi esposa!

SÉNECA
Sean inocentes los reyes
o que se enfurezcan sólo por causas nobles.
Si la inocencia se pierde,
piérdase sólo para conquistar reinos,
pues el pecado cometido
para agrandar el imperio,
se disuelve en sí mismo,
pero que una mujer tenga poder
de conducirte al error,
no es culpa de rey o semidiós,
¡es un crimen plebeyo.!

NERÓN
¡Sal de mi vista,
maestro impertinente,
filósofo insolente!

SÉNECA
El peor partido siempre prevalece
cuando la fuerza pugna contra la razón.

Escena Décima

(Popea conversa con Nerón sobre las alegrías
pasadas, quedando Nerón preso de la belleza de
Popea y prometiéndole hacerla emperatriz. Popea
muestra a Séneca como enemigo y Nerón ordena
su muerte. Popea hace votos al Amor para que
exalte su grandeza, y Otón, que permanece
aparte, lo observa todo)

Sinfonía

POPEA
¿Cómo de dulces, señor,
cómo de suaves llegaron a ti,
la pasada noche, los besos de esta boca?

NERÓN
Más queridos cuanto más mordientes.

POPEA
¿Y las manzanas de estos senos?

NERÓN
Tus pechos merecerían un nombre más dulce.

POPEA
¿Y la ardiente cadena de estos brazos?

NERÓN
¡Ídolo mío, ojalá te tuviera aún en mis brazos!
Popea, respiro apenas.
Miro tus labios y viéndolos,
recupero con los ojos
ese espíritu inflamado
que al besarte ¡oh, querida! difundí en ti.
No está, no está ya en el cielo mi destino,
sino en el hermoso rubí de tus labios.

POPEA
Señor, tus palabras son tan dulces,
que en mi propia alma
me las repito a mí misma,
y al decirlas para mí,
hacen fundirse mi corazón amante.
Como palabras las oigo,
y como besos las gozo.
Son tus queridas palabras
tan suaves y vivaces,
que no contentas con acariciar el oído,
me vienen a estampar en el corazón sus besos.

NERÓN
La excelsa diadema con la que rijo
los destinos de los hombres y los reinos
quiero compartir contigo,
y no estaré feliz
hasta que tengas el título de emperatriz.
Pero, ¿qué digo, oh Popea?
Roma es demasiado pequeña para tus méritos,
demasiado angosta es Italia para tus alabanzas
y para tu bello rostro,
es poco para ti ser la esposa de Nerón.
Tienen esta desventaja tus bellos ojos,
que trascendiendo los ejemplos corrientes
y no tocando el cielo por modestia,
no reciben el tributo de otro honor
que el silencio y el estupor.

POPEA
A esperanzas sublimes elevo el corazón
porque tú lo ordenas,
y mi modestia recibe fuerzas.
Pero es mucho lo que obstaculiza e impide
el fin último de tus promesas reales.
Séneca, tu maestro,
ese estoico sagaz,
ese filósofo astuto,
que siempre intenta persuadir a otros
de que tu cetro depende sólo de él...

NERÓN
¿Qué? ¿Qué?

POPEA
De que tu cetro depende sólo de él...

NERÓN
¿Ese loco decrépito...

POPEA
¡Ése! ¡Ése!

NERÓN
...a tanto se atreve?

POPEA
¡A tanto!

NERÓN
(A los soldados de su guardia)
¡Eh, que uno de vosotros
vaya volando a ver a Séneca
y le imponga que en este día muera!

(Para sí)

Quiero que mi arbitrio dependa sólo de mí
y no de conceptos ni sofismas de otros.
Casi renegaría
de la potencia de mi alma
si creyese que, servilmente indigna,
actúa movida por otros.

(A Popea)

Popea, queda de buen ánimo,
hoy verás lo que puede hacer Amor.

(Nerón sale)

POPEA
Si me conduces, Amor,
a la real majestad,
en tu templo colgará
mi corazón cual ofrenda.
Inspira mi pecho,
fuente de todo bien,
y elévame al trono.
Amor, pongo en ti toda mi esperanza.
Las maravillas, Amor,
son obra de tus manos,
pues trasciende todo asombro
tu poder soberano.
Consuela mis suspiros,
cumple mis deseos,
elévame al trono.
Amor, pongo en ti toda mi esperanza.

Escena Undécima

(Otón habla con Popea de sus esperanzas
muertas y le reprocha su pasión amorosa. Popea
se enfada, y despreciándolo, se va diciendo estar
sujeta a Nerón)

Ritornello

OTÓN
A otros toca en suerte beber el licor,
y a mí, mirar el vaso.
Abiertas están las puertas a Nerón,
pero Otón se ha quedado fuera.
Él se sienta a la mesa a saciar su apetito,
mas en amargo ayuno, muero yo de hambre.

POPEA
Quien nace desafortunado,
cúlpese a sí mismo y no a otros.
De tu penoso estado no soy ni fui, Otón,
la amarga causa.
El destino tira los dados y espera los puntos;
el resultado, bueno o malo, de él depende.

OTÓN
Esperé que esa roca, bella Popea,
que te rodea el corazón,
fuese por el benigno amor
enternecida en pro de mi dolor.
Ahora, el duro pedernal de tu blanco pecho
es la sepultura de mis esperanzas muertas.

POPEA
No me reproches más,
deja ya de martillear,
deja de tentarme.
A la voluntad imperial se somete Popea.
Apaga tu fuego y templa tu indignación,
pues yo te dejo para ganar un reino.

OTÓN
¿Y así es la ambición de quien ostenta
la monarquía de todos los vicios?

POPEA
Así mi razón
acusa a tus caprichos de locura.

OTÓN
¿Es ésta la recompensa por mi amor?

POPEA
¡Ten modestia!

OTÓN
¿Es ésta la recompensa por mi amor?

POPEA
¡Ah, no más!...

OTÓN
¿Es ésta la recompensa por mi amor?

POPEA
¡No más, no más! ¡Soy de Nerón!

OTÓN
¡Ay! Quien pone su fe en un bello rostro,
edifica en el aire y cimenta en el vacío,
trata de palpar el viento
e inmóviles cree al humo y a las olas.

ARNALTA
¡Infeliz muchacho!
Me mueve a compasión el miserable.
Popea nunca tuvo cerebro,
pues carece de piedad.
Cuando yo tenía otra edad,
nunca quise amantes,
destruidos por las lágrimas,
por compasión, los contentaba a todos.

Escena Duodécima

(Otón, amante desesperado, ataca
animosamente a Popea)

OTÓN
Otón, vuelve en ti,
el más imperfecto sexo
no tiene por naturaleza
más de humano que la figura.
Otón, vuelve en ti,
ella piensa en el poder, y si lo consigue,
mi vida está perdida...
Otón, vuelve en ti,
ella, temiendo que Nerón sepa
de mis pasados amores,
urdirá insidias contra mi inocencia,
le inducirá por la fuerza a acusarme
de lesa majestad y de felonía.
La calumnia, favorita de los grandes,
destruye de los inocentes el honor y la vida.
Debo adelantarme
con la espada o con el veneno;
no quiero alimentar más esta serpiente en mi seno.
¿A éste, a este fin
debe llegar tu amor,
perfidísima Popea?

Escena Decimotercera

(Otón, antiguo amante de Drusila, dama de la
corte, viéndose despreciado por Popea reanuda
sus amores prometiéndole lealtad. Drusila se
consuela por recuperar su afecto)

DRUSILA
Siempre hablas de Popea
con la lengua o con el pensamiento.

OTÓN
Separado del corazón está la lengua,
y de la lengua confío a los vientos
el nombre de la infiel
que traicionó mi afecto.

DRUSILA
El tribunal de Amor
hace así justicia;
de mí no tienes piedad,
y otro se ríe, Otón, de tu dolor.

OTÓN
A ti cuanto soy,
bellísima doncella,
te entrego ahora libremente.
Me alejo de cualquier otra
y solo tuyo seré, Drusila mía.
Perdonad, ¡oh, dioses!
perdonad mi pasada descortesía.

DRUSILA
¿Ya sepultó el olvido
los amores pasados?
¿Es verdad, Otón, es verdad
que a mi corazón fiel, el tuyo se une?

OTÓN
¡Es verdad, Drusila; Drusila, es verdad, sí, sí!

DRUSILA
Temo que estés mintiéndome.

OTÓN
¡No, no, Drusila; Drusila, no!

DRUSILA
Otón, Otón, no sé, no sé.

OTÓN
Contigo no puede mentir mi lealtad.

DRUSILA
¿Me amas?

OTÓN
Te deseo.

DRUSILA
¡Y cómo! ¿En un momento?

OTÓN
El amor es fuego y se enciende súbitamente.

DRUSILA
Esta repentina dulzura
la goza mi corazón, pero no la entiende.
¿Me amas?

OTÓN
Te deseo.
Que hable tu belleza de mi amor.
Por ti, mi corazón tiene una nueva forma impresa,
cree en tus propios milagros.

DRUSILA
Contenta me voy: Otón, queda feliz.
Voy a ver a la emperatriz.

OTÓN
La tempestad de mi corazón se ha calmado.
Otón sólo será de Drusila; y para mi desgracia,
inicuo Amor, tengo a Drusila en la boca
y a Popea en el corazón.



ACTO SEGUNDO


Escena Primera

(Jardín de la villa de Séneca. Mercurio, enviado
a la tierra por Palas Atenea, anuncia a Séneca
que morirá ese día, y aquél da gracias al cielo sin
turbarse por el horror de la muerte. Al finalizar el
mensaje, Mercurio vuela al cielo)

SÉNECA
Soledad amada,
refugio de la mente,
retiro de los pensamientos,
delicia para el intelecto
que discurre y contempla
imágenes celestiales,
bajo formas innobles y terrenales.
A ti acude mi alma alegre
y lejos de la corte que,
insolente y altanera,
hace trizas mi paciencia.
Aquí, entre las hojas y la hierba,
me siento en el regazo de mi paz.

MERCURIO
Verdadero amigo del cielo,
precisamente en este solitario lugar
quería visitarte.

SÉNECA
¿Y cuándo, cuándo
he merecido las visitas divinas?

MERCURIO
La virtud soberana de la que estás lleno
deifica a los mortales
y por eso tienes bien merecidas
las embajadas celestiales.
Palas a ti me envía
y te anuncia la proximidad de la última hora
de esta frágil vida
y el paso a otra eterna e infinita.

SÉNECA
¡Oh, qué feliz soy!
Si hasta ahora he vivido
la vida de los hombres,
viviré a través de la muerte
la vida de los dioses.
Numen cortés, ¿me anuncias hoy la muerte?
Ahora confirmo mis escritos
y autentifico mis estudios.
Abandonar la vida es una alegre suerte
si a través de una boca divina llega la muerte.

MERCURIO
Prepárate alegre
para el celestial viaje,
para el tránsito feliz.
Te enseñaré el camino
que conduce al polo estrellado.
¡Séneca, hacia allá levanto ya mi vuelo!

Escena Segunda

(Séneca recibe al liberto que le anuncia la
muerte por orden de aquél. Séneca, estoico,
se prepara para abandonar la vida)

LIBERTO
(Para sí)
La órdenes tiránicas
excluyen toda razón
y sólo tratan de violencia o muerte.
Debo decirlo, y pese a no ser más
que el inocente mensajero,
me parece ser partícipe del mal
que debo referir.

(A Séneca)

Séneca, mucho me pesa encontrarte,
aunque te buscaba.
No me mires con mirada torva;
aunque sea para ti pájaro de mal agüero.

SÉNECA
Amigo, hace ya mucho tiempo
que llevo el pecho protegido
contra los golpes del destino.
Las noticias del siglo en el que vivo
no suenan extrañas para mi mente.
Si me anuncias la muerte,
no me pidas perdón.
Río mientras me traes un regalo tan bello.

LIBERTO
Nerón...

SÉNECA
¡No más, no más!...

LIBERTO
... a ti me envía.

SÉNECA
¡No más! Te he entendido, y obedezco.

LIBERTO
¿Y cómo puedes entenderme antes de que hable?

SÉNECA
La forma en que hablas
y la persona que a mí te envía,
son dos señales amenazandoras y crueles
de mi fatal destino.
Ya lo he adivinado.
Nerón a mí te envía
a imponerme la muerte.

LIBERTO
Señor, lo adivinaste.
Muere, muere feliz,
que así como van los días,
al encuentro del sol,
a llenarse de luz,
a tus escritos vendrán
para tomar su luz los escritos de otros.
Muere, muere feliz.

SÉNECA
Vete, vete pues,
y si hablas con Nerón antes de esta noche,
le dirás que yo estoy muerto y enterrado.

Escena Tercera

(Séneca consuela a sus familiares, que tratan de
disuadirle, y les ordena prepararle un baño para
recibir a la muerte)

SÉNECA
Amigos, ha llegado la hora
de poner en práctica
esa virtud que tanto he celebrado.
Breve angustia es la muerte;
un suspiro pasajero parte del corazón
donde ha estado muchos años
casi como en un hospicio, cual forastero,
y vuela hacia el Olimpo,
verdadera morada de la felicidad.

FAMILIARES
¡No mueras, Séneca, no!
Yo no querría morir.

Ritornello

Esta vida es demasiado dulce,
este cielo es demasiado sereno,
toda amargura, todo veneno,
finalmente es un leve obstáculo.
Si me entrego al leve sueño,
me despierto por la mañana,
pero una tumba de pulido mármol
jamás devuelve lo que recibe.
¡No mueras, Séneca, no!
Yo no querría morir.

SÉNECA
Suprimid vuestra angustia,
enviad el llanto
de los canales de vuestros ojos
a la fuente del alma, queridos míos.
Vaya ese agua conmigo
a lavar de mi corazón
la indigna mancha de la inconstancia.
Otro tributo,
mayor que un gemido doliente,
busca Séneca moribundo.
Id todos a prepararme el baño,
que si la vida corre
como el río que fluye,
en un cálido río quiero que esta sangre inocente
vaya a cubrirme de púrpura
el camino de la muerte.

Escena Cuarta

(El paje y la dama de la emperatriz bromean
amorosamente)

Ritornello

PAJE
Siento un cierto no sé qué
que me pellizca y me deleita,
dime tú lo que es
dama amorosa.
Te haría, te diría,
pero no sé lo que querría.
Si estoy contigo, el corazón me late;
si te vas, me siento estúpido.
En tu pecho, blanco como la leche,
siempre anhelo y siempre pienso.
Te haría, te diría,
pero no sé lo que querría.

DAMA
Astuto muchachito,
Amor juega contigo.
Si te vuelves amante,
perderás bien pronto el cerebro.
Amor urde enredos con niños para divertirse,
pero Amor y tú sois dos malandrines.

PAJE
¿Así comienza el amor?
Es una cosa muy dulce.
Yo daría por gozar de este placer
cerezas, peras y dulces.
Pero si amarga se volviese
esta miel que me deleita
¿la endulzarías tú?
¡Dímelo, vida mía, dímelo tú!

DAMA
¡La endulzaría, sí, sí!

PAJE
¿Y cómo lo harías?

DAMA
¿Acaso no lo sabes?

PAJE
No lo sé, querida, no lo sé.
Dime cómo se hace;
haz que lo sepa pronto
para que si el orgullo llegase
a subírseme a la cabeza,
yo sepa sacar dulzura de mí mismo.
Me parece que por ahora
si me dices que me amas,
me contentaré.
Dímelo, querida,
y si vivo me quieres, no digas que no.

DAMA
Te amo, querido paje,
y en el fondo del corazón siempre te tendré.

PAJE
No querría, esperanza mía, estar en tu corazón,
querría estar más arriba;
no sé si mi deseo es sabio o estúpido,
yo querría que mi corazón anidase
en los hoyuelos bellos y delicados
que no están lejos de tu boca.

DAMA
¿Y si te mordiese?
Te lamentarías llorando todo el día.

PAJE
Muérdeme cuanto sepas,
que no me lamentaré.
Mordiscos tan dulces
los querría gozar siempre.
Que para ser besado por tus rubíes
me muerdan tus perlas.
¡Muérdeme cuanto sepas: muérdeme, sí!

Escena Quinta

(Nerón, enterado de la muerte de Séneca, canta
amorosamente con el poeta Lucano sobre su amor
por Popea)

NERÓN
Ahora que Séneca ha muerto,
cantemos, Lucano,
canciones de amor
en honor de un bello rostro que de su mano,
Amor me ha impreso en el corazón.

LUCANO
Cantemos, señor, cantemos...

NERÓN, LUCANO
A ese rostro sonriente
que exhala gloria e influye amor.
Cantemos a ese rostro querido,
en el que lo ideal se vuelve realidad,
y cuya blancura,
cual nuevo prodigio,
supo animarse del color de la granadilla.
Cantemos a esa boca
a la que la India y Arabia
consagraron sus perlas y sus perfumes.
Boca, boca...

LUCANO
Boca, que si razona o ríe,
hiere con invisibles armas,
y al alma entrega la felicidad mientras la mata.
Boca, que si me trae lasciva
sus tiernos rubíes,
embriaga el corazón de néctar divino.

NERÓN
¡Ay, destino!

LUCANO
Señor, tú estás
gozando del éxtasis del amor;
y caen de tus ojos
gotas de ternura
y lágrimas de dulzura.

NERÓN
Ídolo mío,
celebrarte yo quisiera
pero mis palabras son diminutas llamas vacilantes
comparadas con tu sol.

Ritornello

Son rubíes preciosos
tus labios amorosos,
y mi corazón constante
es de sólido diamante;
así, Amor, ha convertido en gemas
tu belleza y mi corazón.
Son rosas sin espinas
tus mejillas queridas,
más puro que los lirios
es el candor de mi fe.
Así, entre tu bello rostro y mi corazón,
ha dividido su primavera Amor.
¡Soy el más feliz de los amantes!

LUCANO
¡Oh, feliz Popea,
señora de tus alabanzas!
¡Oh, feliz Nerón,
en brazos de Popea!
De Nerón...

NERÓN, LUCANO
¡Cantemos la belleza de Popea,
cantemos la dicha de Nerón!

NERÓN
Que el cielo abra la catarata del amor.

LUCANO
Y que diluvie y lo inunde todo siempre...

NERÓN, LUCANO
... ¡de felicidad sobre los queridos amantes!

Escena Sexta

NERÓN
¡Oh, qué a tiempo
llegas, adorada mía!
Estaba contemplando
tu rostro con el pensamiento,
ahora lo venero con ojos idólatras.
Ojos queridos, ojos dulces,
a cuya amorosa oscuridad
se rinde la luz del más querido día,
de vosotros salió la saeta
que me atravesó suavemente el corazón.
¡Por vosotros vive Nerón y por vosotros muere!

POPEA
Y yo no encuentro un día
en el que tú no resplandezcas.
Mi corazón no quiere
que yo respire aire alguno
si no es iluminado por tu rostro,
rostro que circundado
de majestad amorosa,
entró en mi corazón a través de estos ojos.
Siempre llevaré de tu divino semblante
¡oh, mi señor!
un retrato en los ojos y otro en el corazón.

NERÓN
¡Ah! ¿Por qué no seré
un sutil y respirable elemento para entrar,
¡oh, querida!
por esa boca de rubíes
y besar de incógnito
un corazón divino?

POPEA
¡Ah! ¿Por qué no soy yo
la sombra de tu bello cuerpo, oh señor mío,
para asistirte siempre
con la compañía de Amor?
Ah, que para consolar mi dolor, el cielo haga
de ti y de mí, señor, un solo cuerpo.

NERÓN, POPEA
¡Vayámonos,
bien pronto nos uniremos!
Nada separará nuestras manos,
ni nuestro corazón.
Tú aquí, yo aquí.
¡Ay, hoy tengo los ojos llenos de lágrimas,
pero bien pronto vendrán las horas tranquilas!

Escena Séptima

(Otón se recrimina a sí mismo la idea de ofender
a Popea a causa de su desesperado afecto, al que
se resigna a vivir sujeto)

OTÓN
Mi súbita ira
y mis intereses,
me indujeron a pensar
en asesinar a Popea.
¡Oh, maldita mente!
¿Por qué eres inmortal y no puedo
desangrarte y castigarte?
¿Pensé, hablé de asesinarte, bien mío?
Mi genio perverso,
renegado el afecto
que un día me diste,
cayó y se derrumbó en un pensamiento
tan detestable como criminal.
¡Cambiadme este alma deforme,
dadme un espíritu menos impuro,
por piedad, oh dioses!
Reniego de un intelecto
que discurre despiadado
y que pensó, sanguinario e infernal,
en ofender y desangrar a mi bien.
¡Desvanécete, desfallece,
miserable memoria al recordarlo!
¡Despréciame cuanto sepas,
ódiame cuanto quieras,
quiero ser Clicia bajo el sol de tus ojos!
Amaré sin esperanzas
a pesar del destino;
Sea mi delicia el amarte desesperado.
Blandiré los tormentos
que nacen de tu bello rostro,
estaré herido, sí, pero en el paraíso.

Escena Octava

(La emperatriz Octavia ordena a Otón
que asesine a Popea, amenazándole con su
indignación y diciéndole que vista ropas de mujer
para su seguridad. Otón se entristece y sale)

OCTAVIA
Tú, que de mis antepasados
heredaste la grandeza,
si tienes memoria de los beneficios recibidos,
préstame ayuda.

OTÓN
Majestad, lo que pides
lo ordena el destino.
Estoy dispuesto a servirte, ¡oh, reina!
aun cuando ello implicase
sacrificarte mi ruina.

OCTAVIA
Quiero que tu espada
escriba tus deudas conmigo
con sangre de Popea. ¡Quiero que la mates!

OTÓN
¿Que mate a quién?

OCTAVIA
A Popea.

OTÓN
¿Que mate a quién?

OCTAVIA
¡A Popea! ¿Por qué?
¿Te niegas acaso
a lo que me has prometido?

OTÓN
¿A lo que te he prometido?

(Para sí)

El saber estar, los cumplidos humildes,
la modestia de las palabras, la cortesía,
¿a qué pena mortal me han condenado?

OCTAVIA
¿Qué estás murmurando?

OTÓN
Estudio el modo
más cauto y seguro
para una empresa tan grande.

(Para sí)

Oh, cielo, dioses,
en este horrible punto
despojadme la vida y el espíritu.

OCTAVIA
¿Qué murmuras?

OTÓN
Hago votos a la Fortuna
para que me dé aptitud para servirte.

OCTAVIA
Y puesto que lo que tienes que hacer,
me será más grato cuanto más rápido,
¡apresúrate a prepararte!

OTÓN
(Para sí)
¿Tan pronto he de morir?

OCTAVIA
Pero ¿a qué viene
tanto soliloquio?
Te avisa mi odio imperial:
si no cumples tu cometido pronto,
¡pagarás tu pereza con la cabeza!

OTÓN
¿Y si se enterase Nerón?

OCTAVIA
¡Cambia tus ropas!
Toma un vestido de mujer
y con un engaño oportuno,
sagaz ejecutor, cumple con tu obra.

OTÓN
Dame tiempo para que pueda
enfurecer mis sentimientos,
deshumanizar el corazón.

OCTAVIA
¡Apresúrate a prepararte!

OTÓN
Dame tiempo para que pueda
embrutecer la mano.
No puedo cambiar en un momento
el alma de enamorado
por las artes de un carnicero despiadado.

OCTAVIA
Si no me obedeces,
te acusaré ante Nerón
de haber pretendido contra mí
violencias deshonestas,
y haré que te rodeen
la tortura y la muerte en este día.

OTÓN
A obedecerte, emperatriz, voy.
¡Oh cielo, oh dioses, en este horrible punto
despojadme la vida y el espíritu!

Escena Novena

(Drusila se consuela con las promesas amorosas
de Otón, y el paje bromea con la nodriza sobre su
vejez)

DRUSILA
Feliz corazón mío
festeja en mi pecho.
Tras las horribles nubes gozaré del claro cielo.
Hoy espero que Otón
me confirme su prometido amor.
Feliz corazón mío
festeja en mi pecho;
festeja en mi pecho, corazón alegre.

PAJE
Nodriza, ¿cuánto pagarías por un día
de alegre juventud como Drusila?

NODRIZA
Todo el oro del mundo pagaría.
La envidia por el bien de otras,
el odio de ser yo misma,
la flaqueza del alma,
la enfermedad de los sentidos,
son cuatro ingredientes,
o mejor, cuatro elementos
de esta miserable vejez que,
canosa y temblorosa,
de sus propios huesos es un cementerio andante.

DRUSILA
No te lamentes así pues, aún estás lozana.
Aún no se ha puesto el sol
aunque hace ya mucho paso la rojiza aurora.

Ritornello

NODRIZA
El día femenino
encuentra su tarde a mediodía.
Del mediodía en adelante
se marchita la belleza.
Con el tiempo se vuelve dulce
el fruto amargo y duro,
pero en pocas horas se pudre lo que está maduro.
Creed en mí
¡oh, jovencitas, frescas en su mañana!
la primavera es la estación
en la que Amor está con vosotras.
No dejéis que pasen
el verde abril o mayo.
Se suda mucho en julio para ir de viaje.

PAJE
Vayamos a ver a Octavia,
mi señora abuela...

NODRIZA
¡Te daré una guantada!

PAJE
Venerable anciana.

NODRIZA
¡Mentiroso!

PAJE
Idolatrada amiga del buen Caronte.

NODRIZA
¡Que sí, mentiroso insolente! ¡Que sí!

PAJE
Vayamos, que tú estás más cerca
de la media noche que del mediodía.

Escena Décima

(Otón confiesa a Drusila que debe asesinar a
Popea por orden de Octavia y le pide, para pasar
desapercibido en su empresa, sus ropas. Ella le
promete sus vestidos, su silencio y su ayuda)

OTÓN
No sé a dónde voy.
El palpitar del corazón
y los pasos del pie no van de acuerdo.
El aire que entra en mi pecho cuando respiro
encuentra tan afligido mi corazón,
que se transforma súbitamente en lágrimas.
Y así, mientras yo peno,
el aire, por compasión, llora en mi pecho.

DRUSILA
¿Y dónde, señor mío?

OTÓN
¡Drusila! ¡Drusila!

DRUSILA
¿Dónde, dónde, señor mío?

OTÓN
¡Sólo a ti te busco!

DRUSILA
Aquí estoy para lo que quieras.

OTÓN
Drusila, quiero confiarte
un secreto gravísimo:
¿prometes silencio y ayuda?

DRUSILA
Todo aquello que de mi sangre o de mis bienes
pueda ayudarte y servirte,
es ya más tuyo que mío.
Relátame el secreto,
que además del silencio
te doy en prenda mi alma y mi fe.

OTÓN
Ya no estarás más celosa
de Popea...

DRUSILA
No, no.

OTÓN
...de Popea.

DRUSILA
¡Feliz corazón mío, festeja en mi pecho!

OTÓN
Escucha, escucha.

DRUSILA
Festeja en mi pecho...

OTÓN
Escucha.
Yo debo, por una orden terrible,
hundirle en el pecho mi espada;
y para encubrir
tan terrible crimen
querría tus vestidos.

DRUSILA
Los vestidos, y la sangre de mis venas te daré.

OTÓN
Si consigo ocultarme,
viviremos siempre unidos en la dicha del amor.
Si me condenan a morir,
en el idioma de un piadoso llanto
dame exequias ¡oh, Drusila!
Si, fugitivo,
debo evitar la ira mortal de quien ordena,
socórreme en mi suerte.

DRUSILA
Mis vestidos y la sangre de mis venas
te daré voluntariosa.
Pero ve con cuidado y actúa con cautela.
Por lo demás,
ten por seguro que mi fortuna y riqueza
te darán tributo en cualquier lugar.
Así probarás que una amante
tan noble como Drusila
no la hubo nunca, ni en los tiempos antiguos.
¡Feliz corazón mío, festeja en mi pecho!
Vayamos ya a que me desvista,
quiero travestirte con mis propias manos.
Pero quiero saber por ti y con más detalle
la razón de una empresa tan horrenda.

OTÓN
¡Vayamos, vayamos ya,
que con gran estupor lo oirás todo!

Escena Undécima

(El jardín de Popea. Popea, alegre por la muerte
de Séneca, perturbador de su grandeza, pide a
Amor que prospere su fortuna y promete a su
nodriza Arnalta la continuidad de su afecto.
Soñolienta, se recuesta en el jardín, donde
Arnalta la duerme con una suave nana)

POPEA
Ahora que Séneca ha muerto,
Amor, recurro a ti:
¡guía mi esperanza a buen puerto
y hazme esposa de mi rey!

ARNALTA
Siempre de tu boda
estás canturreando...

POPEA
En otra cosa, Arnalta mía, no pienso.

ARNALTA
La pasión más inquieta
es la loca ambición;
pero si alcanzas tu cetro y tu corona,
no te olvides de mí,
tenme siempre cerca tuya,
y no te fíes jamás de los cortesanos
porque sólo en dos cosas
es Júpiter impotente:
que en el cielo entre la muerte
y que la lealtad se encuentre en la corte.

POPEA
No dudes que conmigo
serás siempre la misma,
y no temas que ninguna otra
sea mi confidente.
Amor, recurro a ti,
lleva a buen puerto mi esperanza
y hazme esposa de mi rey.
Parece que el sueño me invita
a cerrar los ojos en esta quietud.
Aquí, en el jardín, Arnalta,
dispón el modo para que pueda dormir,
que con el aire fresco me gusta adormecerme.

ARNALTA
¡Ya habéis oído, doncellas! ¡Vamos!

POPEA
Si el sueño me transporta
más tiempo del acostumbrado,
ven a despertarme.
No permitas a nadie el ingreso en el jardín,
salvo a Drusila o a otra confidente.

ARNALTA
Recuéstate, Popea.
Serénate, alma mía,
que estarás bien custodiada.
Que el suave olvido
de los dulces sentimientos
te adormezcan, hija mía.
Cerraos, ojos ladrones,
¿qué hacéis aún abiertos
si también robáis cerrados?
Popea, reposa en paz.
Queridos y dulces luceros,
¡dormid ahora, dormid!
¡Amantes,
admirad este nuevo milagro!
El día es luminoso
a pesar que el sol se ha dormido!

Escena Duodécima

(Amor baja del cielo mientras Popea duerme)

AMOR
Duerme, la incauta duerme.
Ella no sabe
que ahora vendrá
el instante mortal.
Así, la humanidad vive en la oscuridad,
y cuando ha cerrado los ojos
se cree del mal a buen seguro.
¡Oh, estúpidos!
¡Oh, frágiles sentidos mortales!
Mientras caéis en el soñoliento olvido,
sobre vuestro sueño está vigilante el dios.

Ritornello

¡Duerme, oh Popea,
diosa terrenal!
Amor, que mueve el sol y las estrellas,
te salvará de las armas de tus enemigos.
Ya se avecina
tu ruina,
pero no te ocurrirá ningún extraño accidente,
pues Amor es pequeño, sí, pero omnipotente.

Escena Decimotercera

(Otón, vestido como Drusila, entra en el jardín
donde duerme Popea para asesinarla, pero Amor
lo evita. Popea se despierta y Otón, confundido
con Drusila, huye perseguido por los sirvientes
de Popea. Amor, exclamando que además de
defender a Popea quiere hacerla emperatriz,
vuela al cielo y termina el acto segundo)

OTÓN
Heme aquí transformado de Otón en Drusila.
No, no de Otón en Drusila,
sino de hombre en una serpiente
cuyo veneno y rabia
ni ha visto ni verá igual el mundo.
Pero ¿qué veo, infeliz? ¿Duermes, alma mía?
¿Cerraste los ojos para no abrirlos más?
Queridas pupilas, el sueño os cerró
para que no veáis este extraño prodigio:
salir vuestra muerte de mis manos.
¡Ay! Tiembla el pensamiento,
el movimiento se detiene,
y tengo el corazón fuera de sí,
errando por las vísceras temblorosas
en busca de un lugar donde esconderse;
envuelto en un sollozo,
trata de huir fuera de mí mismo
para no participar en esta atrocidad.
Pero ¿por qué vacilo? ¿Qué espero?
Ella me aborrece y me desprecia, ¿y aún la amo?
Lo he prometido a Octavia: si me arrepiento
acelero el funesto fin de mis días.
Manténgase lejos de la corte
quien quiera ser puro.
Quien busca otra cosa
que no sea su propio interés, merece ser ciego.
El hecho queda oculto,
la manchada conciencia
se lava finalmente con el olvido.
¡Popea, te mato! ¡Amor, honor, adiós!

AMOR
Loco desgraciado,
enemigo de mi divinidad,
¿a tanto te atreves?
Fulminarte debería,
pero no mereces morir
por la mano de los dioses.
Ve ileso de estas agudas flechas,
que no privaré al verdugo de lo que es suyo.

POPEA
¡Drusila!
¿Llegas a mí con un arma desnuda en la mano
mientras duermo sola en mi jardín?

ARNALTA
¡Corred, corred!
¡Acudid siervos y doncellas!
¡Seguid a Drusila, vamos, vamos!
¡No dejéis escapar a ese monstruo!
¡Vamos, vamos, vamos, vamos!

AMOR
¡He defendido a Popea,
quiero hacerla emperatriz,
he defendido a Popea!

Sinfonía



ACTO TERCERO


Escena Primera

(Drusila se regocija esperando recibir la noticia
de la muerte de Popea para así gozar de Otón)

DRUSILA
¡Oh, feliz Drusila! ¡Oh! ¿Qué puedo esperar?
Se acerca la hora decisiva.
Perecerá, morirá mi rival
y Otón será finalmente mío.
¡Oh! ¿Qué puedo esperar?
Si mis vestidos
han servido
para protegerle,
con vuestro permiso, dioses,
quiero adorarlos.
¡Oh! ¿Qué puedo esperar?

Escena Segunda

(Arnalta, nodriza de Popea, hace prender
a Drusila, ante lo cual, ésta se lamenta)

ARNALTA
¡Esta es la miserable
que pensando en ocultarse
se ha cambiado de vestidos!

DRUSILA
¿Y qué pecado?...

LICTOR
¡Detente, estás muerta!

DRUSILA
¿Y qué pecado me conduce a la muerte?

LICTOR
¿Aún finges, indigna sanguinaria?
¡Tramaste asesinar a Popea
mientras dormía!

DRUSILA
¡Ay, querido amigo! ¡Ay, suerte!
¡Ay, mis ropas inocentes!
Por mí debo lamentarme y no por otros.
Fui demasiado crédula e incauta.

Escena Tercera

(Nerón interroga a Drusila sobre el intento de
asesinato, y ella, para salvar a Otón de la ira de
Nerón, confiesa haber querido asesinar a Popea,
por lo que Nerón la condena a muerte)

ARNALTA
Señor, ésta es la criminal
que trató de asesinar
a la señora Popea.
La inocente dormía en su jardín
cuando llegó ella con la espada desnuda.
Si tu devota sirvienta
no llega a despertar en ese momento,
ella hubiese dado el golpe cruel.

NERÓN
¿Por qué tanta audacia?
¿Qué te indujo, rebelde, a la traición?

DRUSILA
Inocente soy,
lo sabe mi conciencia y lo saben los dioses.

NERÓN
No, no, confiesa si atentaste por odio,
cumpliste la orden de otro, o fue por oro
lo que te llevaron al gran crimen.

DRUSILA
Inocente soy yo,
lo sabe mi conciencia y lo saben dioses.

NERÓN
¡Tormentos, cadenas y fuego
te arrancarán los nombres
del culpable y los cómplices!

DRUSILA
(Para sí)
Pobre de mí,
antes de que un atroz tormento
me haga decir lo que quiero callar,
sobre mí misma arrojaré
la sentencia mortal y la condena.
¡Oh, vosotros, que en el mundo os llamáis amigos,
miraos reflejados en mí,
estos son los oficios del verdadero amigo!

ARNALTA
¿Qué murmuras, infame?

LICTOR
¿Qué deliras, asesina?

NERÓN
¿Qué dices, traidora?

DRUSILA
(Para sí)
Pelean en mi pecho
en feroz concurrencia
el amor y la inocencia.

NERÓN
¡Antes de que horribles tormentos
te hagan sentir mi cólera,
persuade a tu obstinada mente
a rebelar tu imprudente traición!

DRUSILA
Señor, yo fui la culpable
que intentó asesinar
a la inocente Popea.
Mi persona y esta mano
fueron los únicos cómplices.
A ello me indujo un antiguo odio oculto,
no busques más, la verdad te digo.

NERÓN
¡Conducidla
al verdugo!
Que le aplique
una muerte lenta
que haga su agonía amarga.
¡Que sea horrible la muerte de esta criminal!

DRUSILA
(Para sí)
Adorado bien mío,
ámame al menos enterrada,
y que sobre mi sepultura
tus ojos derramen,
de la fuente del corazón,
lágrimas de piedad, si no de amor.
Yo voy, como verdadera amiga y fiel amante,
a través de la ira del verdugo
a expiar con mi sangre tus pecados.

NERÓN
¿Por qué tardáis, oh, ministros?
¡Que con un atroz fin
ella pruebe hoy
mil muertes y mil ruinas!

Escena Cuarta

(Otón, viendo condenada a la inocente Drusila,
se acusa a sí mismo confesando haber intentado
cometer el delito por orden de la emperatriz
Octavia. Nerón le perdona la vida, enviándole
al exilio y despojándole de su fortuna. Drusila
pide acompañarle en el exilio y se marchan
consolados. Nerón decreta el repudio de la
emperatriz Octavia, ordenando que sea dejada en
una barca en el mar a merced de los vientos)

OTÓN
¡No, no, que esta sentencia
caiga sobre mí, que la merezco!

DRUSILA
Yo fui la culpable, que quiso asesinar
a la inocente Popea.

OTÓN
Sed testigos, ¡oh, cielos! ¡oh, dioses!
Ella es inocente.

DRUSILA
Mi persona y esta mano
fueron los únicos cómplices.
A ello me indujo un antiguo odio oculto;
no busques más, la verdad te digo.

OTÓN
¡Inocente, ella es inocente!
Yo fui, con los vestidos de Drusila,
y por orden de la emperatriz Octavia,
a asesinar a Popea.
Dame, señor, la muerte con tu mano.

DRUSILA
¡Yo fui la culpable, que quiso asesinar
a la inocente Popea!

OTÓN
¡Júpiter, Némesis, Astrea,
fulminad mi cabeza,
pues como justa venganza,
el horrible patíbulo me espera!

DRUSILA
¡A mí me espera!

OTÓN
¡A mí me espera!

DRUSILA
¡A mí!

OTÓN
¡A mí.!

DRUSILA
¡A mí!

OTÓN
¡A mí me espera!
Dame, señor, la muerte con tu mano;
y si no quieres que tu mano
adorne de decoro mi final,
privado de tu gracia
déjame vivir en la infelicidad.
Si quieres atormentarme,
mi conciencia te dará los azotes.
Si a los leones y a los osos quieres abandonarme,
déjame con el pensamiento de mis culpas,
que me devorará los huesos y la carne.

NERÓN
Vive, pero ve a los más remotos desiertos
despojado de títulos y de fortuna,
y que te sirva, mendigo y despreciado,
de flagelo y de cobijo tu propio delito.
Y tú, que fuiste tan audaz ¡oh, noble señora!
como para cubrirle
con salvadores engaños,
vive a la fama de mi clemencia,
vive a la gloria de tu fortaleza.
Que tu constancia, en este siglo,
sea un bello ejemplo para tu sexo.

DRUSILA
Consiente, señor mío,
que en el exilio junto a él
pase mis días felices.

NERÓN
Haz lo que quieras.

OTÓN
Señor, no soy castigado sino bendecido.
La virtud de ella
será la riqueza y la gloria de mis días.

DRUSILA
¡Vivir y morir contigo: otra cosa no quiero!
Doy a Fortuna
todo lo que me entregó,
para que tú reconozcas
una fe constante en este corazón de mujer.

LICTOR
¡Vamos, vamos, terminemos; idos en mala hora!

NERÓN
Proclamo y decido
con edicto solemne
el repudio de Octavia,
y con el exilio perpetuo de Roma
la proscribo.
Que sea conducida a la costa más cercana
y se le prepare en un momento
una balsa,
para que sea abandonada a los vientos.
Doy así justa rienda suelta a mi cólera.
Volad a obedecerme.

Escena Quinta

(Nerón jura a Popea que ese día será su nueva
esposa)

POPEA
Señor, hoy renazco a las primeras flores
de esta nueva vida.
Quiero que mis suspiros
te den testimonio
de que, renacida por ti, languidezco y muero,
y muriendo y viviendo, siempre te adoro.

NERÓN
No fue Drusila
quien intentó asesinarte.

POPEA
¿Quién fue? ¿Quién fue el infame?

NERÓN
Nuestro amigo Otón.

POPEA
¿Por sí mismo?

NERÓN
La idea fue de Octavia.

POPEA
Ahora tienes justa causa
para el repudio.

NERÓN
Hoy, como te prometí,
serás mi esposa.

POPEA
No espero volver a ver un día tan querido.

NERÓN
Por el nombre de Júpiter y por el mío,
te aseguro y te juro
con palabra real
que serás emperatriz de Roma

POPEA
¿Con palabra real?

NERÓN
Con palabra real te lo aseguro.

POPEA
Ídolo de mi corazón, ha llegado la hora
en la que gozaré de mi bien.

NERÓN, POPEA
No se interpondrán más penas ni demoras.
No tengo el corazón en el pecho,
me lo has robado, sí, sí,
de mi pecho lo ha robado
la luz serena de tus bellos ojos.
Por ti, bien mío, no tengo el corazón en el pecho.
Estrecharé entre mis brazos enamorados
a la que me ha herido... ¡ay!
No tendrán interrupción las horas felices,
si estoy perdido(a) en ti,
en ti me buscaré,
en ti me encontraré,
y volveré a perderme, bien mío,
pues perdido(a) en ti quiero estar siempre.

Escena Sexta

(Octavia, repudiada por Nerón y sin sus atributos
imperiales, parte sola y miserablemente, llorando
el abandono de la patria y sus familiares)

OCTAVIA
¡Adiós, Roma! ¡Adiós, patria! ¡Amigos, adiós!
Inocente, debo alejarme de vosotros.
Marcho al exilio en amargo llanto.
Navegaré desesperada los sordos mares.
El aire que cada hora
recibirá mis suspiros
y los llevará en nombre de mi corazón,
a ver y a besar los muros de la patria.
Yo estaré sola,
alternando el llanto con mis pasos,
enseñando piedad a los troncos y a las piedras.
Remad hoy, gentes perversas,
alejadme de las amadas costas.
¡Ay, dolor sacrílego!
Tú me prohíbes el llanto
cuando dejo la patria.
No puedo derramar una lágrima
mientras digo a mis parientes y a Roma: ¡adiós!

Escena Séptima

(Arnalta, nodriza y consejera de Popea, goza
de verse elevada al grado de confidente de una
emperatriz y muestra su júbilo)

ARNALTA
Hoy será Popea
de Roma emperatriz.
Y yo, que soy su nodriza,
ascenderé los escalones de la grandeza.
¡No, no, con la chusma ya no me trato más!
Quien me habla de tú
ahora, con nueva armonía,
tendrá que gorjearme como "vuestra señoría".
Quien me encuentra por la calle
me dice: "¡mujer lozana y aún bella!"
pero yo bien sé que parezco
una de las sibilas de la antigüedad legendaria.
Así pues, todos me adulan
creyendo ganarme
para que interceda por ellos ante Popea.
Y yo, fingiendo no entender el engaño,
en la copa de las mentiras bebo los elogios.
Nací sierva y moriré matrona.
Moriré de mala gana.
Si renaciese un día,
querría nacer matrona y morir sierva.
Quien deja las grandezas llorando,
a la muerte va,
pero quien sirviendo está,
con una suerte más feliz,
como al fin de sus penalidades ama la muerte.

Escena Última

(El palacio de Nerón. Nerón asiste solemnemente
a la coronación de Popea, que es coronada por
los cónsules y tribunos. Amor desciende del cielo
con Venus, las Gracias y los Amorcillos y también
corona a Popea como diosa de la belleza en la
Tierra, con lo que termina la ópera)

NERÓN
Asciende ¡oh, amada mía!
a la cima sublime
de la grandeza soberana.
Rodeada de glorias
que ambicionan servirte como doncellas,
aclamada por el mundo y por las estrellas.
Que entre los más queridos trofeos
de tu triunfo,
se encuentre, adorada Popea, mi amor.

POPEA
Mi mente, confundida
por esta inusitada luz,
casi pierde la costumbre, señor,
de darte gracias.
En esta excelsa cima
en la que me has colocado,
mi corazón no me basta
para venerarte plenamente.
Debería la naturaleza
para un afecto tan excesivo,
fabricar otro corazón en el pecho.

NERÓN
Para caber en tus ojos,
el sol se ha empequeñecido;
para vivir en tu seno,
el alba ha dejado el cielo;
y para hacerte soberana de mujeres y diosas,
Júpiter destiló las estrellas
y plasmó el ideal en tu bello rostro.

POPEA
Da licencia a mi espíritu
para salir del laberinto amoroso
de estos halagos
y humillarse ante ti como es debido,
mi rey, mi esposo, mi señor, mi bien.

NERÓN
Aquí vienen los cónsules y tribunos
para reverenciarte ¡oh, querida!
Sólo mirándote,
el pueblo y el Senado
comienzan a sentirse dichosos.

Sinfonía

CÓNSULES, TRIBUNOS
A ti, soberana augusta,
con el consenso universal de Roma,
te coronamos con la diadema.
Ante ti Asia, ante ti África, se inclinan.
Ante ti Europa y el mar que la circunda,
este imperio feliz,
te consagra y entrega
esta corona imperial del mundo.

Sinfonía

AMOR
Descendamos,
compañeros alados.

CORO DE AMORES
Volemos
hasta los esposos amantes.

AMOR
A nuestro vuelo
asisten resplandecientes los dioses.

CORO DE AMORES
Del alto polo
se ve el resplandor de vivos rayos.

AMOR
Si los cónsules y tribunos,
Popea, te han coronado
sobre provincias y reinos,
ahora te corona Amor, mujer feliz,
como emperatriz de las mujeres bellas.
Madre, madre, si me lo permites,
tú eres la Popea en el cielo,
y ésta es la Venus en la tierra,
a quien todo lo creado se inclina
para reverenciarla.

VENUS
Yo me complazco ¡oh, hijo!
con todo cuanto te agrada.
Concédase, pues, a Popea
el título de diosa.

POPEA, NERÓN
Que Venus y Amor
alegren el alma y exalten el corazón.
Que nadie escape de su áurea faz,
que aunque abrase, siempre agrada.
Que Venus y Amor
alegren el alma y exalten el corazón.

AMORCILLOS
Ahora cantemos alegres,
festejemos riendo en la tierra y en el cielo
la alegría desbordante,
y que en cada clima, en cada región,
se escuche decir "Popea y Nerón".

OPEA, NERÓN
Por ti miro, por ti gozo,
te abrazo, te estrecho,
ya no peno, ya no muero,
¡oh, mi vida! ¡oh, mi tesoro!
Yo soy tuya...
Tuyo soy yo…
Esperanza mía, dilo,
tú eres mi ídolo,
sí, bien mío,
sí, corazón, vida mía, sí.
Por ti miro, por ti gozo,
te abrazo, te estrecho,
ya no peno, ya no muero,
¡oh, mi vida! ¡oh, mi tesoro!



Traducido y Escaneado por:
Pablo Haldón 2010